Recensione: The Death of Gaia

Di Daniele D'Adamo - 13 Dicembre 2019 - 0:01
The Death of Gaia
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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80

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Tornano, dopo sei anni di assenza, gli Officium Triste. “The Death of Gaia” è il loro nuovo nonché sesto album in carriera. Band e disco, assieme, per celebrare con magniloquenza l’unione fra doom e death metal. Un’unione naturale, che dà luogo a qualcosa che non ha ancora trovato un’adeguata definizione se non un orrido – almeno a parere di chi scrive – death/doom metal. Il che può vuol dire tutto e/o niente.

Meglio lasciar parlare la musica, allora. Che, in questo caso, miscela in parti sostanzialmente uguali i genere predetti, infischiandosene di catalogazioni varie per estrinsecare (di nuovo: band più disco), il più languido dei sentimenti: la tristezza. Che fa da contrasto netto con il nome proprio della Terra: Gaia. Un pianeta ormai irrimediabilmente contaminato dall’Uomo, che ne ha distrutto le difese naturali, devastando definitivamente i paesaggi più gioiosi e meravigliosi di tutto il Sistema Solare.

Allora, il sestetto olandese cerca di produrre visioni mentali nelle quali l’imperativo è cedere, mollare, lasciarsi andare. Una percezione chiara e nitida che s’intravede sin da subito, nell’opener-track ‘The End Is Night’, cioè. Un brano assai melodico, dall’incedere cadenzato e possente, morbido e delicato allo stesso tempo, a mò di trasognante antitesi fra i sensi.

Ottimo, all’uopo, il profondo growling di Pim Blankenstein che, seppur rabbioso, lascia intendere le strofe di testi che, spesso e volentieri, appaiono vergate nell’aria come poesie. Un growling che s’intona alla perfezione con la musica. Costruita, nei temi, dalle chitarre di Gerard de Jong e di William van Dijk, capaci di indurirsi in riff stoppati dalla tecnica del palm-muting durante la fase ritmica e, contemporaneamente, di disegnare saette e scintille su un cielo plumbeo le quali, unite, formano stupendi orpelli e assoli di gran classe abbinata a geniale raffinatezza. Tutto quanto, tuttavia, non avrebbe ragion d’essere se non ci fossero le avvolgenti, mirabolanti orchestrazioni create dalle tastiere di Martin Kwakernaak. Tirando le somme, per uno stile che magari non rivoluzionerà l’attuale concezione del metal ma che, invece, con grandissimo mestiere e preparazione, nasce cresce e muore in un unico corpo, in un’unica anima, in un’unica mente, che è quella dei Nostri.

Elevato il livello del songwriting, in grado – oltre che a dar vita a una foggia musicale unica – di tratteggiare canzoni una più bella dell’altra. ‘World in Flames’ in primis, clamorosa hit, se così si può dire, data la natura non certo commerciale di “The Death of Gaia”, in cui giace il dono dell’armonia, della musicalità. Anche in questo caso, grazie ai meravigliosi passaggi solisti delle sei corde, che esprimono il cuore di chi le fa cantare; un cuore malinconico, lirico e struggente. Un cuore lontano mille miglia dell’easy listening ma non per questo idoneo a regale melodie memorabili che, una volta assorbite nella mente, paiono saettare fra i neuroni per non uscire mai più dalla scatola cranica. 

Insomma, appaiono ben chiare le idee che ha in testa il combo di Rotterdam, in ogni istante, in ogni momento. Idee che formano la base di un sound davvero riuscito in ogni suo aspetto, sia tecnico, sia artistico. Una base su cui innalzare, come pinnacoli, ogni singola traccia che, dopo un po’ lo si sa già, non deluderà. E così è ‘Shackles’, seguita da un intermezzo strumentale che funge da linea di separazione delle acque del full-length (‘A House in a Field in the Eye of the Storm’). Certo, le canzoni sono lunghe, se così si può dire, rispetto alla solita media dei derivati del rock, ma non per questo annoiano oppure si sfilacciano perdendo tensione emotiva e ardore sentimentale. Anzi, è proprio nei due ultimi episodi che, forse, si trova il meglio del platter: ‘Like a Flower in the Desert’ e la suite finale ‘Losing Ground’.

In linea generale gli Officium Triste tendono a non essere claustrofobici, nel senso di rinchiudersi in se stessi risultando di strette vedute ella lunga noiosi. Al contrario, una delle loro peculiarità è proprio la maestosità del sound, che scatena la visione di sterminati paesaggi senza vita, come se fossero immagini di singoli fotogrammi nei quali è assente la vita e regna il vuoto, l’assenza di gioia, la vita intesa come mero meccanismo che muove oggetti e cose. Allo stesso modo in cui nel gelido vuoto cosmico camminano da eoni, senza emozioni, obbedienti alla meccanica celeste, astri e pianeti.

Assenza di gioia, si è detto. Assenza di Gaia. E si torna all’inizio. Daccapo. Per reimmergersi nell’immaginario mondo disegnato così bene dai pennelli degli Officium Triste. Davvero un gran lavoro, “The Death of Gaia”. Per tutti, da non lasciarsi scappare via. Da non far precipitare nel vuoto.

Daniele “dani66” D’Adamo

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