Recensione: The Devil In Me
L’annuncio della pubblicazione di “The Devil In Me“, quindicesimo album di Susan Kay Quatro, ha subito catturato la mia attenzione, vuoi per la caratura di un’artista che si appresta a festeggiare il suo cinquantennale di carriera (e la cui influenza è stata enorme, soprattutto sulle rockers degli anni ’70 e primi ’80), vuoi perché anche gli ultimi passi discografici di Suzi sono stati di assoluto rispetto. Ottimo il penultimo “No Control” (2019) ed altrettanto dicasi per “QSP“, l’album pubblicato nel 2017 con altri due mostri sacri come Andy Scott (The Sweet) e Don Powell (Slade), due premesse alquanto invitanti ed affatto trascurabili relativamente allo stato di forma della settantunenne Miss Quatro. La sua dedizione alla musica è durata una vita intera ed è davvero interminabile la lista di musiciste che dovrebbe renderle merito e ringraziarla per aver percorso tra le prime la strada del rock ‘n’ roll al femminile. “The Devil In Me” – scritto nuovamente in collaborazione con il figlio Richard Tuckey – è esattamente ciò, la musica che ancora la possiede (the devil made me do it è un adagio che certamente avrete sentito ripetere) e in merito alla quale Suzi non ha alcuna intenzione di abdicare evidentemente. Anzi, per questo nuovo album ha persino rincarato la dose, rilasciando dichiarazioni per la verità anche un po’ roboanti, qualificandolo come il suo miglior lavoro di sempre e rimarcando la propria vitalità e la propria ispirazione mai scemate. Le 12 tracce in scaletta (14 se si considera l’edizione in vinile con due bonus track) probabilmente non saranno le migliori di sempre, tuttavia ad averne di hard rock songs di questo calibro partorite da una musicista “diversamente giovane” come l’instancabile Suzi. Basta l’attacco della title track, posta in apertura, a chiarirne le intenzioni; un coltello a serramanico che scatta agile e saettante, pronto alla rissa. Da lì in poi è classicissimo rock fatto di vibrazioni, elettroni ed entusiasmo. “Hey Queenie” e “Betty Who” sono due ottime prosecuzioni dell’incipit e ci portano dritte, lisce e snelle verso “You Can’t Dream It“, prima sosta all’area di servizio dove Suzi tira un attimo il fiato con una traccia classy ed elegante, con basso e percussioni sottili e raffinate ma molto in evidenza. Grande spazio anche alle armonie vocali. In chiusura abbiamo addirittura una scintillante sezione fiati ad impreziosire la trama araldica di questo pezzo. “Get Out Of Jail” tona al fango e al sudore, evadere da una prigione non è uno scherzo da ragazzi e ci vuole gente scafata e con qualche cicatrice addosso per tentare l’impresa.
“Do Yo Dance” è ruffiana e allegrotta, un pezzo irresistibile stracolmo di malizia, nel quale la classe ed il savoir-faire di Suzi si mettono in grande evidenza. La ragazza ha esperienza da vendere. Qui e ancora affiorano carsicamente i fiati che vengono spalmati con grande perizia lungo la scaletta nei momenti più aperti e di ampio respiro offerti dall’album. “Isolation Blues” non ha bisogno di descrizioni, d’improvviso siete seduti al tavolino di qualche localetto malfamato ed impiastricciato a Downtown; sempre che nessuno vi picchi prima della fine della canzone, o che qualche cameriera scollacciata non vi si sieda in grembo agitando la scollatura, godetevi la band che suona piena di mood sul palco. “I Sold My Soul” torna alla carica dopo che avete ricaricato le batterie tra i fumi dell’alcol e della nicotina; i bpm riprendono a salire mentre vi rimettete addosso il giubbottino di pelle e arroganza. “Love’s Gone Bad” trasuda sensualità e intensità da ogni nota, un serpente suadente che si insinua, ansa dopo ansa, sotto le lenzuola (anche se il vero colpo di grazia ve lo darà il sax). “In The Dark” prosegue le atmosfere di “Love’s Gone Bad“, anche se il sound si fa progressivamente meno ammiccante e più amaro, grazie anche alla tromba che ne chiude il racconto. Il sipario cala definitivamente con “Motor City Riders“, commiato che chiama in causa l’ABC del rock e che vede Alice Cooper, Joan Jett, Ace Frehley, Joe Perry e chissà chi altro applaudire Suzi da sotto il palco. Per quanto il tempo passi, ogni nuova uscita di questa figlia di Detroit aggiunge un segno più alla sua discografia. Complimenti, tutti vorremmo avere una zia Suzi così arrembante, rocciosa e spaccaculi. Non di rado lungo i solchi di “The Devil In Me” si respira esattamente la stessa aria del 1973, quella del debut omonimo di Suzi, e scusate se e poco. Giunto alla fine, il diavolo si è attaccato addosso anche a me!
Marco Tripodi