Recensione: The Devil Went Down To The Holy Land
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Tornano, a distanza di due anni dal precedente studio album, gli israeliani Betzefer e ci riprovano riprendendo il discorso proprio laddove era stato interrotto con il penultimo “Freedom To The Slave Makers”.
La band è attiva sin dal 1998 e nei suoi quindici anni di storia, contraddistinti dalla pubblicazione di due full length e di ben tre EP, ha solo leggermente modificato il proprio sound passando dal groove venato di metalcore degli esordi fino ad arrivare all’odierno mix di groove metal e modern hard rock. Il nuovissimo “The Devil Went Down To The Holy Land” si inserisce, quindi, in maniera molto diligente sulla via tracciata dal suo predecessore risultando sicuramente più ragionato e rifinito che in passato ma, per il resto, piuttosto avaro di sorprese.
Tra riff di tredicesima mano e stacchi ritmici certamente potenti quanto ormai prevedibili, gli “omaggi” a gruppi come Pantera, Black Label Society, Extrema ed Hellyeah non si contano. Eppure, nonostante la frequente sensazione di dejà entendu di cui sopra (“rassicurante” oppure “spiacevole” che sia, decidete voi), va in ogni caso riconosciuto che le quattordici canzoni proposte sul nuovo Betzefer scorrono in maniera piacevole. A patto però di prenderle per il verso giusto. Come la copertina suggerisce, “The Devil Went Down To The Holy Land” è, infatti, un onesto disco di metal ipertrofico e caciarone ma sostanzialmente innocuo (un po’ come accade per gli Hellyeah) e come tale va considerato e affrontato, senza troppe pretese e con tanta voglia di divertirsi e di passare allegramente sopra ai tanti luoghi comuni che affollano le varie composizioni.
Il discorso è analogo anche dal punto di vista tecnico, giacché gli israeliani, pur difettando in termini di personalità, risultano viceversa impeccabili dal punto di vista tecnico ed “espositivo”, mettendo in bella mostra un’ottima tecnica strumentale e nessuna incertezza sul da farsi. Discorso a parte per Avital Tamir, vocalist di una band che fa vistosamente affidamento sulla propria punta di diamante, perfettamente a proprio agio su queste sonorità grazie alla propria ugola sporca, versatile e grintosa.
I pezzi sono tanti (forse troppi, come detto) e tutto sommato di qualità omogenea, livellata sul buono/discreto, senza cadute di stile troppo vistose ma, nel contempo, senza grandi picchi qualitativi. Tra gli episodi migliori vale forse la pena citare la riuscita title track, la successiva “Killing The Fuss” con le chitarre à la Theory Of A Deadman o, di nuovo, la Zakk Wylde-iana “The Medic” e la violenta “Milk”; tuttavia si tratta puramente di esempi, i restanti pezzi possono soggettivamente vantare altrettanti motivi di interesse.
L’eccellenza è sinceramente lontana, ma se s’ha da citare una band che sa indubbiamente fare il proprio sporco lavoro mantenendo degli standard qualitativi inalterati nel tempo, questi sono proprio i Betzefer. Prendere o lasciare.
Stefano Burini
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