Recensione: The Devil’s Hole

Di Fabio Vellata - 2 Luglio 2020 - 0:05
The Devil’s Hole
Band: Bloody Souls
Etichetta: Resisto Records
Genere: Doom 
Anno: 2020
Nazione:
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68

Un primo tassello discografico che si bilancia equamente tra una conclamata mancanza di originalità e le avvisaglie tipiche di una band acerba ma già dotata di qualche oncia di talento.

Nativi d’Abruzzo, i Bloody Souls abbracciano temi, suoni ed atmosfere sulfuree e caliginose. L’indicazione che li vorrebbe appartenenti ad un genere come lo stoner è pertinente, ma è solo una minima parte di quanto in effetti rintracciabile nella miscela elaborata dal quartetto.
La confezione dei brani è molto più oscura, mefitica ed ancestrale e non ha, in effetti granché che si possa ricondurre a scenari invasi da un sole che acceca, confonde e dissimula la realtà. Quello dei Bloody Souls è senza dubbio un Doom corposo, ruvido, primitivo, che ha decise radici nelle profondità melmose dei Pentagram ma soprattutto devozione assoluta per i Black Sabbath prima maniera.
Anni settanta sì, ma di quelli foschi e tenebrosi. Percepibile per lunghi tratti del disco, l’anima peculiare che si agita nelle membra dei Bloody Souls è fatta di zolfo, pece ed immagini mefistofeliche.
Ritmi dilatati, voce stridente, chitarre “grosse”, acuminate, massicce. Queste ultime senza dubbio collocabili tra gli elementi cardine delle composizioni. Una pietra angolare definitiva che descrive in modo esaustivo, più di ogni altro aspetto, quello che i Bloody Souls mettono in musica.
In una sola parola, Sabbathiane.

Nemmeno male, tutto sommato. La personalità è ancora poca, le coordinate stilistiche dei celebri precursori seguite forse un po’ troppo alla lettera. Tuttavia quella minacciosa sensazione di arcana oscurità, tipica di certo underground settantiano, è senza dubbio uno dei motivi di vanto per cui considerare “The Devil’s Hole” un debutto discretamente riuscito. Che difficilmente otterrà consensi dal grande pubblico ed a cui può senza dubbio essere imputata una certa prevedibilità.
Ma al quale va comunque concesso il merito d’essere riuscito a porsi quale rispettoso omaggio di una scena musicale fascinosa – quasi evocativa – come quella del doom primigenio ed arcaico, dissimulato (forse) volutamente, nella vaga forma di uno stoner arcigno ed orrorifico, fatto d’immagini gravide di tetri presagi.

Per cultori. Dichiaratamente di nicchia.
Comunque genuini e, a modo loro, piacevoli.

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