Recensione: The Digital Holocaust

Di Daniele D'Adamo - 24 Ottobre 2016 - 22:38
The Digital Holocaust
Band: Eyexist
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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55

Avant-garde death metal.

Altro sotto-genere death, coniato dal duo canadese Jean Beaulieu Francis Bouillon per descrivere cosa suoni il loro progetto Eyexist. I due si conoscono da molti anni, ma è solo adesso che hanno deciso di mettersi assieme per dare alle stampe il debut-album: “The Digital Holocaust”.

Obiettivo dichiarato, spingere quanto più possibile la teoria dell’evoluzionismo applicata al death metal. Che, alla fin fine, più che all’avant-garde death metal, porta, inevitabilmente, al cyber death metal. Fattispecie musicale già delineata e tratteggiata, anche nei particolari, da numerose band, ormai. Niente di nuovo sotto il sole, quindi. Nonostante i proclami, il suono degli Eyexist non si discosta granché, per esempio, da quello dei Red Blood Throne.

Un paragone non a caso, poiché, sebbene “The Digital Holocaust” non sia così scadente come “Union of Flesh and Machine”, pure esso si rivela, sostanzialmente, un flop. Basti dire che i segmenti migliori, quelli più riusciti, quelli cioè che catturano l’attenzione, sono i vari incipit techno / ambent (‘Planar Extinction’). Per il resto, si salvano solo due / tre song da un caos inspiegabile; circostanza imprevedibile dato atto del background tecnico / artistico posseduto dai due musicisti di Montreal.

Per ciò, si possono citare la title-track, ‘The Digital Holocaust’ e la successiva ‘The One Who Meets With God’, quest’ultima unica vera canzone cyber death metal presente in “The Digital Holocaust”. Ricca quindi di emotività, capace di generare agghiaccianti visioni di futuri apocalittici, ossessionati dalla Luna che precipita sulla Terra per decretare la fine della razza umana e la susseguente vittoria delle macchine, in rivolta verso gli stessi creatori.

Il resto del platter è davvero… piatto, scandito dalla (troppo) monocorde interpretazione vocale di Beaulieu ma, soprattutto, da un songwriting assolutamente non all’altezza della situazione. Tale da far sembrare tutte le song più o meno uguali. La struttura dell’intera operazione è debole, alla mercé della ridetta confusione; con singoli episodi che, sembra, non abbiano né un inizio né una fine. Un susseguirsi di cliché che non regalano nulla di nuovo rispetto a quanto già visto in tema, ulteriormente penalizzate da orchestrazioni confuse, indistinguibili nel marasma generale.

In una tale frenetica agitazione di particelle elementari, è difficile capire se si tratti di un’occasione persa, oppure se sia semplicemente il fatto che il binomio quebecchese non sia tagliato per questo genere di cose.

Ininterpretabile.

Daniele D’Adamo

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