Recensione: The Divine Horsemen
I cavalieri teutonici hanno dimostrato nel corso degli anni di essere una band in costante evoluzione e di andare cercando tutto tranne che le situazioni “di comodo”; nonostante un passato recente non così roseo (Tief/Tiefer non fu un granché e Der Rote Reiter un prepotente ma non eccelso rientro in carreggiata), i nostri tornano sul luogo del delitto come ogni ingenuo assassino e pubblicano un altro doppio album stravolgendo ancora una volta le carte in tavola.
La sorpresa del venticinquesimo anniversario è quindi presto servita: novanta minuti di musica registrati in due giorni nell’autunno 2020 senza aver preparato alcunché.
Tagliando subito la testa al toro, The Divine Horsemen impatta benissimo perché Tiki, posta come singolo di apertura, è una gran figata e ha un tiro micidiale. Poi, il ritorno all’etnico nel metal di questi tempi è quasi necessario e fa sempre da ciliegina sulla torta. Un altro paio di pezzi black dove i riff portanti si auto riciclano, poi la cosa prende tutta un’altra piega.
Di jam session si parla e, come è ovvio, ci si accosta a tutti i pregi e difetti che un’operazione del genere possa comportare. Generalmente, se non si è dei grandi strumentisti, il suonare come viene può sì portare grandi idee ma anche momenti che poi vengono cestinati o relegati in qualche oscura b-side di ancora più oscuri 7 pollici. The Divine Horsemen non fa eccezione e se, da un lato c’è una Tiki che gira fin troppo bene rispetto al resto (specchio per le allodole?), dall’altro ci sono diversi, anzi talmente tanti minuti di nulla e brani inutili da poterci tappezzare una siepe a Po.
Dicevamo, di metal qui c’è davvero poco e non sempre è un difetto; però, nel momento in cui o servi dei polpettoni da 10 minuti con dei loop sull’ambient/psichedelia anni settanta di quarta mano o servi brani da poco più di un minuto che sono appena abbozzati, il dubbio che sarebbe stato meglio suonare solo il genere padre viene eccome.
L’opera è apprezzabile comunque negli intenti e nei presupposti, ma un maggior lavoro di scrematura e snellimento l’avrebbe resa sicuramente più fruibile e meno soporifera. E’ difficilissimo ascoltarla tutta di fila, pena incorrere in un tedio irreversibile. Sono complici anche le linee vocali, che risultano spesso orecchiabili ma già utilizzate nei precedenti album; spesso si ricorre a testi a base di onomatopee, col risultato che brani come Wa He Gu Ru arrivino a sembrare cover di Schana Wana del Maestro Bini.
Ci congediamo quindi sperando in un altro ritorno in carreggiata dei Reiter e a quel che sanno fare meglio, che sicuramente arriverà; per ora però rimane solo un po’ di amaro in bocca.