Recensione: The Dreamcatcher
“La scena rock internazionale non si è ancora del tutto affrancata dall’influsso del triste e depresso modo di far musica tipico degli anni novanta, per questa ragione stiamo cercando di diffondere quel dolce e profumato sapore di rock n’roll ottantiano quanto più possibile. Stiamo attendendo la nuova rivoluzione musicale, perché l’ultima è stata davvero un sacco di tempo fa…”
Dato per assunto sin dalle primissime battute che non saranno di certo i pur volonterosi e simpaticissimi Stone Orange a rappresentare i precursori di una nuova ondata rivoluzionaria in ambiti musicali, dobbiamo comunque ammettere che – altrettanto di primo acchito – il four piece di Ljubljana, Slovenia, suscita una buona dose di simpatia e accondiscendenza.
Non fosse altro che per quel manifesto e dichiarato amore per i suoni vitali e carichi di colori accesi che tanto ottenevano successo nel declamati e rimpianti anni ottanta.
Diciamoci un bel pezzo di verità.
Per chi c’era – se non del tutto, almeno in parte – l’epoca d’oro di hard rock e AOR ha rappresentato qualcosa di difficile da dimenticare. Molta più gioia di vivere, sensazioni positive e fiducia nel futuro. Tutte cose presenti a livello sociale che, inevitabilmente, tendevano a riverberarsi nella musica prodotta, definizione di un periodo – per concetto – dalle connotazioni assolutamente positive e salvifiche.
Va da se quindi, che quando una giovane band (insomma, magari non giovanissima, data la fondazione occorsa nel 2003), dichiara in modo tanto esplicito e conclamato l’intenzione di ricercare una radice di quello stile di far musica risalente ad ormai tre decadi fa, un pizzico di nostalgia, mista a speranze e curiosità, si fa largo nell’immaginazione di chi ne ama incondizionatamente i canoni stilistici.
Speranze soprattutto.
Quelle di scoprire un credibile ed integro nucleo di musicisti animato da sincera ed onesta passione. Che sia, in particolare, mosso dal reale desiderio di offrire con la propria musica un po’ di quelle atmosfere perdute tra le pieghe del tempo.
E sapete che c’è?
Che gli Stone Orange, pur non spiattellando al mondo una formula artistica destinata a definire un nuovo modo di scrivere canzoni, danno davvero la sensazione di crederci, puntando su di un approccio “pulito” e pieno di riverenza verso l’heavy rock melodico che riesce a risultare apprezzabile e non “finto”.
Il loro secondo disco, “The Dreamcatcher”, potrebbe, in effetti, essere descritto con un termine piuttosto improprio quanto azzeccato: “sorridente”.
Un album che, pur trattando di argomenti non sempre leggeri e spensierati, riesce a strappare un sorriso: vuoi per le melodie scorrevoli e talora frizzanti, vuoi per i ritornelli aperti e radiofonici. In ogni caso, sempre per una ragione precisa che va a connettersi con la semplicità di comporre brani ed il piacere genuino e rilassato che ne deriva all’ascolto.
Intendiamoci: nessun fuoriclasse in vista, ne disco capolavoro o personalità di immane rilievo.
Però via, episodi come “Broken Man”, “Rockin n’ Rollin’”, “Lovetron” (top track), “Whites On Their Eyes” e “The Age Of Stars” (ottimo ed evocativo finale) ottengono effetti davvero notevoli, rimembrando scenari da “arena rock” cari a TNT, Treat e Stage Dolls, con un taglio vagamente più moderno. Senza quindi, nemmeno portarsi addosso gli effluvi ammuffiti e stantii di cose vecchie ed impolverate.
Idee chiare, un po’ di buon gusto e parecchia linearità di songwriting.
Il resto lo fanno una discreta dose di talento – in gamba il guitar player Tomo Jurca – ed un pugno di canzoni che scivolano piacevolmente, a corredo di un album grazioso, romantico e ben confezionato (bella pure la copertina!).
Elementi utili, insomma, ad affermare che gli Stone Orange, nel loro piccolo, ci hanno “preso” piuttosto bene.
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