Recensione: The dying God

Di Alessandro Rinaldi - 5 Agosto 2024 - 0:52
The dying God
Band: Emberfrost
Etichetta: Drakkar Productions
Genere: Black 
Anno: 2024
Nazione:
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68

Dalla calda Palermo, gli Emberfrost si affacciano per la prima volta nell’underground italiano con questo EP d’esordio, The Dying God, che mostra ancora una volta lo stato di buona salute in cui versa il nostro metallo nero. Una band ricca di esperienza e talento, i cui membri hanno già avuto, o hanno, esperienze pregresse in altre formazioni importanti – una sorta di supergruppo siciliano, quindi:  Claudio Florio alla batteria e alla seconda voce, Roy Zappia alle chitarre, Andrea Amata alle tastiere e Ivan Bologna alla voce e al basso.

E proprio quest’ultimo è l’autore dell’artwork di The Dying God, un’illustrazione che affonda le radici nella tradizione norrena a cui la Sicilia è legata: in un panorama austero e invernale, in cui spiccano dei monti, si aggira un individuo incappucciato. Nel suolo, si intravede l’immagine di un’entità probabilmente divina che si fonde con esso. Ed è proprio quest’ultima rappresentazione, un’importante indicazione dello spirito del disco: il Dio “morente” – concetto caro alla cosmogonia scandinava che considera le divinità esseri non del tutto immortali – non va ricercato tanto nella Bibbia o in qualsiasi altro testo sacro, ma in ognuno di noi, riportando quindi, la figura del singolo (il viandante di cui sopra) ad una dimensione trascendente (ovvero il Dio “morente”, fuso nel terreno).

L’EP di debutto è composto da sette brani (se si esclude la bonus track), di cui un intro e una outro, per un totale di 25 minuti di musica, quindi, tracce con una durata media inferiore agli standard del genere: tutto ciò, contribuisce ad un facile e immediato, nonché ripetuto, ascolto. Gli Emberfrost propongono sonorità decisamente “svedesi” con un sound molto pulito, attento all’armonia (e alla produzione), che accarezza il death; i tempi sono lenti, favorendo, appunto, la sezione armonica. Aspetto centrale e capacità lapalissiana della band sicula, è quella di saper creare, grazie alle tastiere, delle atmosfere glaciali e particolarmente azzeccate che in alcuni passaggi fagocitano la sezione elettrica.

Si parte con l’azzeccatissimo giro di piano di The Beginning, un succulento antipasto di quello che a breve andremo a sentire e di quanto le atmosfere abbiano un ruolo fondamentale nel sound degli Emberfrost. Segue In The Night’s Whisper, che ha un riff lento e molto orecchiabile, pronto ad accelerare in modo improvviso. Tra funerei rintocchi di campane e tastiere, prende forma il brano scelto come veicolo promozionale, Old Obsession’s Exorcism: più selvaggio e meno “ricamato” dei precedenti, le note si muovono più velocemente ed in modo più articolato, dando vita ad una composizione più complessa. Si prosegue con la titletrack, composizione strumentale che lascia spazio all’acustica, che suona tra tuoni apocalittici e pioggia scrosciante: una malinconica quanto soave creazione, un piccolo gioiello incastonato nella corona di The Dying God. The Demon Inside Me è una composizione più ritmata e solenne che ci introduce un’altra gemma, Ecstasy In Darkness: una composizione articolata, lenta e curata, in si esalta la sezione ritmica e l’abilità strumentale degli Emberfrost.  Chiude l’outro Of The End, romanticamente decadente e spettrale, quasi una composizione da colonna sonora di un horror soprannaturale. The Dying God, ha anche una bonus track ovvero la versione promo del 2023 di In The Night’s Whisper.

The Dying God è un ottimo esordio, che lascia intravedere le potenzialità di una band che ha già un sound delineato e una certa personalità: le ottime capacità compositive e tecniche sono un’ottima base da cui partire per lo sviluppo di un album, la vera prova del nove per gli Emberfrost.

Vi aspettiamo.

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