Recensione: The End Of An Era
Con colpevole ritardo (l’album è datato settembre 2023) ci occupiamo di “The End Of An Era”, l’album di esordio dei vogheresi Never Obey Again, quintetto che nasce attorno alle figure di Carolina Bertelegni e Alessandro Tuvo (compagni anche nella vita), che propone quello che molto semplicemente può essere definito modern metal, costruito attorno a ritmiche potenti, melodie estremamente memorizzabili e una certa lontananza da qualsiasi cliché vintage. Chi apprezza l’evoluzione dei Lacuna Coil, non disdegna gli Evanescence e ancora non si è ripreso dalla fine dei Linkin Park sicuramente potrà apprezzare, chi è più tradizionalista storcerà il naso, ma è innegabile che ci troviamo al cospetto di un lavoro ben realizzato.
È sufficiente premere il tasto play, che, dopo la prima traccia che funge da introduzione, con “The Storm” atmosfere rarefatte ci accompagnano immediatamente ad un contesto musicale che ricorda da vicino quando proposto da band come i P.O.D., con un interessante alternarsi di parti rappate e momenti corali di ampio respiro, sicuramente coinvolgenti in un contesto live. Con la successiva “Toxic Feelings” la cantante viene fuori in tutta la sua personalità, in un pezzo più aggressivo che si fa apprezzare anche per le ritmiche decise e che ben si amalgamano con linee vocali particolarmente struggenti. È anche l’occasione per apprezzare suoni e produzione in generale, a cura proprio dei chitarristi Alessandro Tuvo e Alex Pedrotti (quest’ultimo responsabile anche di mix e master) i quali, senza allontanarsi dal proprio home studio di provincia e senza chiamare in causa nomi altisonanti della console, sono riusciti a creare un prodotto di respiro internazionale.
Tanta elettronica sostiene “Take Care Of You”, dove la voce di Carolina Bertelegni viene fuori con tutta la sua energia: più vicina a rocker di razza quali Cristina Scabbia (il break sui ¾ del pezzo è decisamente Lacuna Coil) e Lzzy Hale che non le valchirie nord-europee, la frontwoman riesce a valorizzare il cantato con particolare enfasi grazie ad un’interpretazione sentita (non stupisce che sia anche vocal coach). Perdoniamo stacco rap di “Stronger” che è praticamente un omaggio a Mike Shinoda, in quanto il resto del pezzo si “apre” decisamente bene e ci gustiamo una “Wake Up” che è l’archetipo di quanto più modern possa esserci al giorno d’oggi (con l’eccezione di un buon assolo abbastanza classico).
La base ritmica a cura di Matteo Malchiodi alla batteria e di Cristiano Trappoli è potente e pulita, esaltandosi grazie alla produzione moderna e nitida. Chiaro, come si faceva intendere all’inizio, è necessaria la giusta apertura mentale per apprezzare un lavoro dove l’elettronica abbonda (ma è sempre funzionale al pezzo e mai fine a se stessa). Sostanzialmente tutti i pezzi sono potenziali singoli, ma è solo sul finire dell’album che i Never Obey Again tirano fuori i pezzi da novanta con “Underdog” e, soprattutto, “9:45”, vera e propria masterclass di orecchiabilità, mentre è un po’ telefonata la cover di “Zombie”. Ma ci può stare che un gruppo all’esordio punti su una cover celeberrima per guadagnare in visibilità, in un mondo dove sembra avere successo solo ciò che diventa virale.
Per un debut album le palesi influenze sono assolutamente accettabili e perdonabili in un certo senso, non mettendo assolutamente in secondo piano la qualità intrinseca del lavoro (tra l’altro, da sottolineare come i Never Obey Again siano un progetto 100% do-it-yourself e questo fa onore ai suoi componenti). Ci aspettiamo in ogni caso una crescita in termini di personalità a livello di scrittura sul prossimo album – appena annunciato per ottobre 2024 – per una band che ha tutte le potenzialità per fare bene in futuro.
Vittorio Cafiero