Recensione: The End of an Era | Rebirth

Di Daniele D'Adamo - 14 Aprile 2019 - 10:44
The End of an Era | Rebirth
Band: Inferi (USA)
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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78

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Torna sul campo di battaglia la mitragliatrice Inferi con “The End of an Era | Rebirth”, ultimogenito di una stirpe che vede la sua nascita nel 2006. Il full-length è il sesto, che prosegue macinando senza tentennamenti il particolare stile che possiede il combo di Nashville.

Nota a margine: “The End of an Era | Rebirth” è il completo rifacimento del secondo disco “The End of an Era” (2009), rifatto nella forma ma soprattutto nella sostanza con l’attuale lineup. Ricostruito così diversamente e modificato così profondamente dall’originale che è d’uopo rendergli la dignità di una nuova fatica.

Stile votato a una scellerata, scatenata mistura di technical e melodic death metal, come più su scritto identificativa con un certa facilità del modus operandi in una band ricca di personalità, carattere, tenacia. Personalità e, ovviamente, tecnica ai massimi livelli attuali in materia di metallo oltranzista.

Di più, “The End of an Era | Rebirth” mostra delle linee vocali incredibili, assestate sul folle screaming di Steve Boiser, coadiuvato in ciò dal growling del chitarrista Malcolm Pugh. Tuttavia, rispetto alle produzioni precedenti, in questo lavoro pare sia stata data priorità al primo approccio, quasi a volersi avvicinasi al djent. Con che, dotando il sound di quella originalità che, ormai da un po’, è una delle peculiarità principali dei Nostri.

Non solo voce, però. Gli Inferi, oltre alle ugole, miscela, come detto, due stili non proprio compatibili, almeno teoricamente. Il technical death metal ha come obiettivo quello i dar luogo a una struttura complessa, complicata, eretta per i palati più esigenti. Il melodic death metal, invece, esige meno abilità esecutiva a favore di un approccio maggiormente votato all’armoniosità, alla melodia, appunto. Il merito della formazione statunitense, allora, è da tenere in debita considerazione per il suo perfetto mix fra le spaventose aggressioni a tutta velocità – come accade per esempio in ‘A New Breed of Savior’ – , nelle quali emergono a volte in maniera meno decisa ma più spesso in modo marcato le pregevoli melodie messe in campo dalle chitarre dello stesso Pugh e di Mike Low. Autori di un immenso lavoro a livello ritmico ma, anche, di lunghi assoli dall’anima accattivante e assai piacevole da ascoltare. Il risultato è un sound intricato all’inverosimile ma pregno di delicate sfumature atte a renderlo meno aspro, arcigno, indigesto.

Tale approccio, pertanto, ha il merito di rendere accessibile un po’ a tutti song la cui composizione mette in campo una moltitudine immensa di note, cambi di tempo, ardite scalate verso gli altopiani della follia; sui quali si scatena senza pietà per alcuno il devastante drumming di Spencer Moore, che divaga senza paura e con grande perizia tecnica nei territori dei blast-beats più furibondi. Ottimo, pure, il lavoro al basso di Andrew Kim che, al contrario di quanto si potrebbe supporre, non dà arido sfogo di bravura fine a se stessa ma che, grazie al suo caldo pulsare, contribuisce a rendere meno ostico il songwriting.

Canzoni. Enormi contenitori di musica che mantengono costantemente ai massimi livelli possibile un’energia sostanzialmente inesauribile, avvolgendola con inserimenti a tratti addirittura orecchiabili come si può apprezzare in ‘The War Machine Embodiment’. La quale, nondimeno, quando diverge verso BPM da allucinazione non diviene quel classico malloppo indigeribile messo in atto da certi ensemble dediti solamente al technical death metal.

Canzoni, ancora. Mediamente lunghe ma che, non per questo, provocanti noia o distacco o… voglia di scappare. Di nuovo, salta in alto l’anima bifronte dell’act del Tennessee nella stupenda suite strumentale ‘The Warrior’s Infinite Opus’, in cui l’act medesimo mostra una disarmante capacità di elaborare con naturalezza praticamente tutto l’arco ritmico che possono contenere i brani del metal estremo più raffinato e poliedrico.

Allora, si può affermare senza possibilità di errore che “The End of an Era | Rebirth” sia un’opera ideale per avvicinare i fan a uno stile di metal estremamente lavorato, difficile, tortuoso ma anche dotato di elementi accattivanti atti a addolcire una durezza che, altrimenti, sarebbe insostenibile ai più.

Si consiglia di inserire in memoria questo nome: Inferi.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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