Recensione: The End of Silence
La vita, a volte, è davvero strana. Basti sapere che nel caso dei romani Astaroth ci sono voluti ben ventisette lunghissimi anni per far uscire il seguito di quel seminale mini-Lp intitolato The Long Loud Silence, che vide la luce nel lontano 1985, quando il mondo dell’heavy metal ma soprattutto l’Italia erano molto ma molto diversi da quelli odierni. Il combo capitolino, infatti, contribuì fortemente ad alimentare le schiere di legionari in denim&leather dediti all’amore per le sonorità dure in quel di Roma ma anche in tutto il centro della penisola e, in un momento successivo, pure oltralpe grazie a tour memorabili. Ad affiancare i Nostri durante le fasi di quella battaglia ideologica cittadina che tentava di cambiare le cose, atta ad abbattere le barriere e gli stereotipi di un certo modo di pensare, altre falangi di guerrieri armati di Flying V e giubbotti di pelle del calibro di Raff, Fingernails, Thunder, Schwartz e Stiff, solo per citarne cinque.
Poco soddisfatti dei riscontri ottenuti, nonostante gli importanti concerti affrontati in Italia e oltrefrontiera, gli Astaroth nel 1987 prendono la decisione probabilmente più importante della loro esistenza: trasferirsi armi e bagagli in quel di Los Angeles e tentare fino in fondo di raggiungere quel sogno musicale che li accompagna da quando esiste la band. Complice una situazione in veloce mutazione, i Nostri riescono a cavarsi molte soddisfazioni alle quali però fanno seguito altrettante delusioni, che li inducono a dissotterrare la daga di guerra, quantomeno fino ai giorni Nostri. Giunge infatti a sorpresa la notizia del ritorno degli Astaroth, per di più in grande stile, ossia con gli storici Saverio “Shining” Principini al basso, Max Cipicchia alla chitarra e Jan D’Amore alla batteria. A completare la line-up l’americano Ace Alexander, che prende il posto dell’originale Bob Cattani.
Il nuovo disco nasce a Los Angeles e si intitola legittimamente The End of Silence. Alla produzione c’è lo stesso Shining mentre il missaggio in studio è curato da Michael Tacci, già alle prese in passato con Metallica e Whitesnake. Dieci i brani presenti, tutti figli degli anni Ottanta e scritti nei periodi successivi al mini-Lp dell’85. La release gode di una sontuosa confezione digipak imperiale a tre ante, delle quali la prima interna porta in dote una foto del Colosseo da brivido. Il booklet, di ben sedici facciate, racchiude in lingua inglese la storia della band e alterna il testo a immagini, flyer di concerti ma soprattutto molto simpaticamente propone le foto di “prima e dopo” dei vari Shining, Cipicchia e D’Amore.
L’opener My Sleeping Beauty si rivela essere uno dei pezzi migliori del come-back: grande hook e riffing classico a sorreggerne il peso. Ace Alexander non possiede la carica barbarica di Bob Cattani ma si difende bene nonostante non sia di certo inquadrabile nel novero dei classici screamer HM duri e puri. I tratti gentili della sua tonalità vocale rimandano a lidi più incasellabili all’interno della sfera hard rock, territorio infatti ove il nostro fornisce il meglio di sé. Dilemma mostra un Max Cipicchia in gran spolvero, fra cambi di tempo e soli al fulmicotone, Nero’s Fire sarebbe il tipico pezzo da interpretare a tavoletta, mentre gli Astaroth evidentemente preferiscono un approccio più ragionato a scapito della forza bruta. Bella la parte sognante verso la fine.
Un riffone anni Ottanta fatto resuscitare da qualche antica catacomba si impossessa di Apocalypse in the Living Room, il lentazzo di turno si intitola The Siren Song, Dreams Die First è una cavalcatona d’altri tempi da paura con headbanging regolare incorporato e inserti melodici di classe che rimandano ai Queensryche del periodo aureo. In Stand or Fall Together gli Astaroth alternano mazzuolate SPQR a cori di stampo USA, per chi nutrisse dubbi riguardo il decennio nel quale i romani dettarono legge basti che si ascolti In Spite of Destiny, dalla struttura stra-classica. Il basso di Shining detta le regole all’interno di Mystic As Tarot, pezzo dall’incedere massiccio ove Alexander osa un poco più del solito, chiusura sulle note della maiden-oriented Chainless Slaves.
The End of Silence si rivela album solido, costruito su basi sicure e che inquadra alla perfezione la connotazione stilistica un po’ più melodica intrapresa dagli Astaroth successivamente a The Long Loud Silence. L’evidente tonnellaggio di violenza palesemente ancora in dote ai romani dopo tanti anni viene però irrimediabilmente mitigato dalla prova di Ace Alexander, che con la sua patina di perbenismo vocale ammanta giocoforza le dieci composizioni del disco, spiccando sì nei passaggi dolci ma di certo non raggiungendo il diapason in quelli in-your-face. Semplicemente, alla resa dei conti, l’album del ritorno dei Legionaries of Steele manca di quell’acidità malefica che tanto faceva Astaroth prima maniera, oggi come probabilmente a fine anni Ottanta, se fosse uscito regolarmente in quel periodo, con gli opportuni distinguo legati al momento storico e alla line-up differente.
Stefano “Steven Rich” Ricetti
Tracklist:
01. My Sleeping Beauty
02. Dilemma
03. Nero’s Fire
04. Apocalypse in the Living Room
05. The Siren Song
06. Dreams Die First
07. Stand or Fall Together
08. In Spite of Destiny
09. Mystic As Tarot
10. Chainless Slaves
Line-up:
Saverio “Shining” Principini – basso
Max Cipicchia – chitarra
Jan D’Amore – batteria
Ace Alexander – voce