Recensione: The End, So Far
Come non poteva essere? Gli Slipknot ripartono dalla tanto prematura quanto traumatica scomparsa di Joey Jordison, benché egli non facesse più parte del gruppo dalla fine del dicembre del 2013, cioè prima della composizione “.5: The Gray Chapter” (2014). Tralasciando nel dettaglio le cause dell’abbandono, dovuta a motivi di salute, il batterista ha profondamente inciso, sin dagli inizi, sul caratteristico nonché unico stile della band; penetrando con la sua presenza sin nei più piccoli anfratti dello stile medesimo.
Questa premessa, magari tediosa, è fondamentale per tentare di spiegare, in maniera autonoma – senza cioè influenze esterne – , il clamoroso cambio di approccio alla questione musicale da parte dei Nostri con il neonato “The End, So Far”. Un approccio che si mostra sin da subito sconvolgente con l’opener-track ‘Adderall’: dolce, morbida, suadente song intrisa di malinconia sino al midollo. Una canzone extra-metal che ricorda un po’ il mood del grunge, almeno a parere di chi scrive. Corey Taylor dimostra ancora una volta di essere un cantante coi fiocchi, capace di modulare la propria voce in tutto lo spettro acustico percepibile dall’orecchio umano. Per la sua natura così particolare, presumibilmente il brano sarà quello che, in futuro, sarà il marchio distintivo del disco. Esso, difatti, si stampa in testa diventando l’indelebile leitmotiv di questo periodo.
Ma gli Slipknot sono anche metallo, alternativo o meno, in grado di proporre singoli episodi dalla grande aggressività (‘The Dying Song (Time to Sing)’, ‘De Sade’). Come per esempio ‘Hivemind’. Micidiale, travolgente, irresistibile cavalcata con il classico ritmo nu metal che ha contraddistinto i momenti più intensi della carriera del combo di Des Moines. Il main-riff è qualcosa di tremendo, tale da far saltare in aria le vertebre cervicali in ordine a un headbanging impossibile da frenare. Con, di nuovo, un forte richiamo alla melodia in occasione del chorus, poi strapazzato dalla furia scardinatrice dei blast-beats sparati alla massima velocità possibile da Jay Weinberg.
A questo punto appare chiaro il pregio principale di “The End, So Far”: l’estrema varietà delle tracce, completamente diverse le une dalle altre seppur obbedienti al comune denominatore che è il già menzionato stile, il quale si può tranquillamente definire unico al Mondo. E, attenzione, non sono poi molti ad avere elaborato un sound così personale sì che si possa riconoscere in pochi decimi di secondo da migliaia di altri, anche similari.
Una varietà che dona al platter una longevità a lungo, anzi lunghissimo periodo. Impossibile annoiarsi, anche dopo reiterati, insistiti ascolti. Arrivati a ‘Finale’ – closing-track dal ritornello da urlo che ripete la concezione di ‘Adderall’ per via della sua marcata diversità dal resto dell’insieme – entra in gioco una specie di foga, una frenesia nel voler subito cominciare dall’inizio.
Un aspetto, questo, che mette sul piatto un talento compositivo semplicemente clamoroso, assestato su livelli di eccellenza assoluta. Che i nove musicisti (compreso, cioè, il famigerato Michael Pfaff, detto “Tortilla Man” così come battezzato dai maggots) dello Iowa fossero così bravi nello scrivere canzoni si sapeva. Ma che, una per l’altra, fossero così penetranti, così uniche, così piacevoli da ascoltare, così pregne di un carattere d’acciaio, così sorprendenti, così… meravigliose, non era ancora dato di sapere. Canzoni impareggiabili nell’aver azzardato l’ingresso in territori non frequentati di solito, come l’armonica/dissonante ‘Yen’, la multiforme ‘Medicine for the Dead’, l’hard rockiana ‘Acidic’.
Un talento che, nonostante la messa a fuoco di un fulgido caleidoscopio di emozioni, non ha minimamente intaccato l’animo, lo spirito di una formazione che non ha eguali sulla Terra. “The End, So Far” è difatti un’opera completa, complessa ma facilmente leggibile grazie a un suono perfetto, unitamente a un’esecuzione strumentale altrettanto perfetta.
LP dopo LP, gli Slipknot paiono migliorare, se osservati a tutto tondo badando ai lavori nella loro globalità. “The End, So Far” non esula da questo concetto. Anzi, propone qualcosa in più, semmai fosse stato possibile, sì da divenire uno dei migliori lavori del 2022. Non solo del metal ma del mondo della musica in generale.
Daniele “dani66” D’Adamo