Recensione: The Endless River
Il fiume infinito dei Pink Floyd ha scatenato un’inondazione di parole che ha allagato il web e la carta stampata. E’ cosa nota la pubblicazione avvenuta il 7 novembre scorso del nuovo album dei nostri dal titolo evocativo “The Endless River”, una serie di brani abbozzati relativi alle registrazioni di venti anni orsono durante le session di “The Division Bell”.
La band aveva pensato a un doppio album, con una prima parte cantata e una seconda interamente strumentale. La storia ci dice che le cose sono andate diversamente, e forse è stato meglio così.
Dopo un ventennio e a seguito della scomparsa del compianto Richard Wright avvenuta nel settembre 2008, i superstiti hanno pensato che il modo migliore di rendere omaggio all’amico fosse di ricordarlo e ricordarcelo pubblicando queste registrazioni che lo vedono protagonista. Un riconoscimento per l’enorme contributo, spesso trascurato, dato alla musica della band.
Inquadrando l’album in questo modo possiamo accettare che dei 18 brani solo 4 abbiano una struttura musicale completa: ”It’s What We Do”, “Anisina”, “Allons-y” e la conclusiva struggente “Louder Than Words”, unico brano cantato su testo scritto da Polly Samson (moglie di Gilmour). I restanti brani possono essere definiti come preludi o code di brani appena abbozzati. Scampoli sonori che ovviamente rimandano al sound che ha fatto la storia del gruppo.
Si riconoscono varie fasi della loro vita e le emozioni che si provano sono quelle dei momenti migliori… anche se sempre di abbozzi parliamo!
Molti hanno criticato che si potevano trasformare altri strumentali in canzoni compiute rendendo l’album più fruibile. Personalmente invece sono contento che non si sia alterato più di tanto il carattere delle incisioni che ci lascia quella magia dei suoni a volte scarni tipici delle prove in studio.
Rimaneggiare, riscrivere e lavorare su quei brani evolvendoli in altre strutture avrebbe solo creato degli “ibridi” assolutamente non riconducibili ai Floyd.
Vediamo quindi più in dettaglio cosa contiene questo disco e addentriamoci nell’analisi delle 4 parti in cui sono stati suddivisi i 18 brani.
Parte 1ª
Si apre con “Things Left Unsaid” intro molto suggestivo che ci riporta subito alle sonorità di “The Division Bell”, atmosfera emozionante che ci introduce alla seguente “It’s What We Do” dove il rimando ai suoni di “Shine On You Crazy Diamond” è chiaro. Siamo di fronte ad un brano molto intenso e ispirato dove l’intreccio sonoro di chitarre e tastiere fa venire i brividi alla schiena. Questa prima parte si chiude con “Ebb And Flow” un delicato fraseggio a sfumare di Wright e Gilmour.
Parte 2ª
L’iniziale “Sum” dopo una breve introduzione di tastiere lascia il posto alla ritmica incalzante di Mason e a farla da padroni questa volta sono la batteria e la classica slide “gilmouriana”, ritmo deciso che alza il tono finora molto soft del disco. Giusto per continuare su questa linea la seguente “Skins” si propone con il martellante drumming di Mason che ci ricorda momenti di “Ummagamma”. Dopo la sfuriata, “Unsung” è il preludio di un minuto che ci introduce a uno dei momenti più delicati e intimi del disco “Anisina”, bellissimo brano costruito attorno ad un semplice giro di pianoforte suonato dallo stesso Gilmour sul quale s’innestano via via sax e clarinetto. Il tutto sfocia in un pregevole solo di chitarra molto emozionante. E’ il primo brano in cui non suona Wright…ma s’intuisce che la dedica è tutta per lui.
Parte 3ª
I primi 2 brani “The Lost Art Of Coversation” e la successiva “On Noodle Street” sono dei brevi momenti sonori in stile ambient in cui sono le tastiere di Wright ad essere in evidenza. L’effetto EBOW della chitarra di Gilmour e il sintetizzatore di Wright creano in “Night Light” una piacevole atmosfera sognante che è pesantemente infranta dall’incalzante “Allons-y (1)” …e qui la memoria corre a “Run Like Hell”.
Con un magistrale mixaggio il brano sfocia nel maestoso suono dell’organo della Royal Albert Hall suonato da Wright in una session di un concerto del 1968: “Autumn ‘68” è una vera chicca, lontana anni luce dai suoni uditi finora, ma di sicuro effetto emotivo. La reprise di “Allons-y (2)” completa una magnifica triade sonora.
“Talkin Hawkin” chiude la 3° parte in maniera strepitosa, è un pezzo elaborato con Gilmour in evidenza tra i cori e la voce metallica dell’astrofisico Stephen Hawking. Un brano emozionante che peraltro era stato concepito come intro alla già stupenda “Keep Talking” di “The Division Bell”.
Parte 4ª
“Calling” dopo “Anisina” è l’altro brano che non comprende Wright ma che in un certo senso ne celebra il ricordo con la sua triste melodia. I suoni spaziali da trip psichedelico di “Eyes To Pearls” ci ricordano invece alcuni passaggi di “Atom Heart Mother”.
“Surfacing” ci riporta a suoni più recenti e moderni, la slide contribuisce a far salire l’atmosfera e si percepisce che qualcosa deve succedere, ci stiamo avvicinando al momento clou del disco.
Lo scampanellio finale (…remember “High Hopes”…) ci introduce la conclusiva “Louder Than Words”, unico pezzo cantato di tutto il disco, praticamente la gemma finale di questo lavoro. Siamo di fronte ad una classica ballad floydiana: suoni nitidi, voce roca, cori strepitosi ed un solo di chitarra da paura. La lacrima d’emozione è strappata anche questa volta e mi viene da dire che da sola questa canzone vale l’acquisto dell’album.
Al progetto “The Endless River” oltre a Gilmour & Mason hanno partecipato tra gli altri: Jon Carin e Damon Iddins alle tastiere, Guy Pratt e Bob Ezrin al basso, Gilad Atzmon al sax e le coriste Louise Marshall, Durga McBroom e Sarah Brown.
La versione deluxe comprende anche un DVD blu ray con altri 3 strumentali e 6 tracce video per puri appassionati. Immagini tratte appunto dalle session del 1994 che ritraggono il gruppo in un momento di grande ispirazione artistica. E’ molto apprezzabile il fatto che questi extra siano stati resi disponibili da subito in modo da evitare inutili uscite successive dall’amaro sapore commerciale.
Come ultimo consiglio direi che l’ascolto secondo me va fatto liberandosi dalla pretesa di avere a tutti i costi fra le mani “l’ultimo” album dei P.F. Provate invece a lasciarvi trasportare dai suoni assolutamente ipnotici, dalle melodie anche solo abbozzate, dai momenti altamente lirici e dai rimandi all’essenza propria e unica dei Pink Floyd. Provate a immaginarveli sul battello-studio immersi in una sequenza infinita di prove per trovare l’intro a effetto, il fraseggio giusto, l’assolo intenso. Se ci riuscite ciò che udirete sarà il suono magico del mito che scorre e continuerà a scorrere sul fiume infinito della musica.
Nelle frasi tratte della conclusiva “Louder Than Words” è contenuta la sublimazione del mito dei Floyd: “E’ più forte delle parole, la somma delle nostre parti, il battito dei nostri cuori, è più forte delle parole… louder than words”.
The Endless River è il tipico album che presta il fianco alle valutazioni più personali e intime: in netta antitesi quella del fan di lungo corso nei confronti della consorella partorita dall’ascoltatore più distaccato… We don’t need no education…
Gianpaolo “Bryan” Borromini