Recensione: The Endless Road Turns Dark
A quattro anni di distanza da “For Those Which Are Asleep“, tornano in pista i Trouble 2, paralleli ai Trouble di “The Distortion Field“. La storica doom metal band di Chicago infatti ha visto maturare uno split quando nel 2014 dalle sue costole (bibliche) sono arrivati i The Skull, incarnazione che vedeva coinvolti ben 4 ex band mates nella figura di Chuck Robinson, Jeff Olson, Eric Wagner e Ron Holzner. Anziché diventare i Trouble Of Fire, i nostri hanno deciso di rivolgersi ad uno degli album pubblicati in passato, il secondo “The Skull” appunto, dal quale mutuare il monicker, evidentemente anche per indicare una potenziale direzione stitlistica alla quale intendevano attenersi con il nuovo (si fa per dire) project. Trascorso quasi un lustro, si diceva, arriva il seguito del debut, sempre su Tee Pee Records, ed arrivano anche il batterista dei Cathedral Brian Dixon e il chitarrista dei Witch Mountain Rob Wrong a completare una line-up a tutto doom.
I Trouble hanno scritto pagine indelebili del genere ed anche con il loro progressivo slittamento su territori più stoner oriented, con l’introduzione di elementi rock ‘n’ roll e zeppeliniani a partire suppergiù dall’omonimo “Trouble” del 1990, sono rimasti tra i capofila del movimento fino ai primi anni ’90, quando la loro tessitura oscura è andata sfilacciandosi e la band, pur senza mai sciogliersi ufficialmente, ha diradato enormemente le proprie pubblicazioni, producendo sostianzialmente 4 album in 20 anni. L’ultimo, “The Distortion Field“, reclutando Kyle Thomas degli Exhorder alle vocals (il curioso caso di un anticlericale sfegatato ai microfoni di una band sovente associata alla religione cattolica), personalmente non mi ha fatto gridare al miracolo, attestandosi come un lavoro piuttosto modesto se comparato alla restante discografia degli americani. I Trouble comunque vivacchiano, e i The Skull invece? Wagner e Holzner sferrano una bordata poderosa con “The Endless Road Turns Dark“, album dall’artwork nerissimo e minaccioso e dal sound estremamente fragoroso. Un punto a favore è certamente la Produzione, rutilante, grandiosa, con una batteria che vede nel rullante il ramazzare della vanga del becchino sul feretro del morto, e nella gran cassa il piombare sordo di mucchi di terra sul defunto appena congedato, tra pianti e lamenti, dai suoi cari. Le chitarre sono tempesta e terremoto, e nell’insieme la musica liberata dalle casse dello stereo spettina e piega i cipressi del vialetto del cimitero che vi apprestate a percorrere, rigorosamente all’imbrunire. Si è scelto quasi di far sovrastare le linee vocali di Wagener dal fragore degli strumenti, al punto da violentare e svilire un po’ il bel timrbo del singer.
Il comparto songwriting merita invece un discorso a parte. “The Endless Road…” non è un capolavoro e non è neppure un brutto album. Colpisce più per la potenza che per la sostanza, le atmosfere vanno e vengono. Vengono ad esempio nel caso della titletrack, posta in apertura di album, e di “Breathing Underwater” (a mio giudizio il miglior pezzo tra quelli presentati); se ne vanno invece (un po’ a ramengo) con “The Longing” o “From Myself Depart“. Nel mezzo ci stano episodi (“Ravenswood“, “All That Remains“, “As The Sun Draws Near“, col ritornello vagamente in odore di “At The End Of My Daze“) che promettono in potenza ma deludono nello sviluppo, perdendo per strada fascino e magnetismo che invece a monte la band pareva aver infuso nelle architetture soggiacenti alle songs. Non so, c’è qualcosa che gira a vuoto; si sente che i The Skull sono i Trouble, la filiazione è innegabile, coerente, filologica, e viene voglia di tornare a respirare la polvere di quelle lande desolate imparentate con l’Apocalisse di San Giovanni; ma poi a conti fatti si registra una specie di coito interrotto, l’orgasmo non si realizza, si rimane a metà, una sorta di vorrei ma non posso, un topolino partorito dalla montagna, che pure ha tuonato in lungo ed in largo al suo annunciarsi alla nostra vista (e ai nostri padiglioni auricolari). In poche parole, “The Endless Road Turns Dark” non è riuscito a convincermi fino in fondo. Nonostante la classe cristallina di questi primattori, la freccia non va a bersaglio, o perlomeno rimane a margine, dove il punteggio è invero un po’ modesto ed inadeguato al rango dell’arciere. I The Skull rimangono un’incompiuta e la speranza è che, dati i tempi estremamenti doomish nella scrittura degli album, non occorra un altro lustro per sapere di che morte moriremo.
Marco Tripodi