Recensione: The Enduring Spirit

Di Manuele Marconi - 1 Ottobre 2023 - 1:50
The Enduring Spirit
Band: Tomb Mold
Etichetta: 20 Buck Spin
Genere: Death 
Anno:
Nazione:
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82

Nel mondo della musica non è facile lasciare una traccia; alla fine non ha niente di diverso rispetto ad un qualsiasi spazio di concorrenza commerciale, con la differenza che con l’avvento delle piattaforme di streaming, e prima ancora di internet e youtube, qualsiasi barriera all’ingresso è stata abbattuta: parliamo ormai di un mercato caratterizzato da concorrenza perfetta fra gli attori coinvolti, nel quale quindi è particolarmente difficile far crescere la propria posizione se si parte dal basso. Contemporaneamente però questa forte assenza di sostegno può portare (sempre complice la materia grigia del soggetto coinvolto) a crescere velocemente, se per caso si riesce a percorrere la via giusta, e la via giusta è sempre quella di distinguersi e somigliare il più possibile a sé stessi.

Lungi dal voler glorificare un sistema basato sul cannibalismo liberal tipicamente atlantico, questa piccola introduzione vuole più sottolineare come nella nicchia metal questa unicità sia particolarmente premiata. Sono infatti pochi i gruppi che possiamo associare allo stile dei Tomb Mold, argomento dell’articolo di oggi. Potremmo dire che siano riconducibili a band come Blood Incantation, Artificial Brain, ma soprattutto associabili ad un suono moderno, di un death metal che nel suo essere massiccio e ricercato può far pensare a radici dei Death di “The sound of perseverance”, ma parliamo comunque di parenti alla lontana. Il collocarsi all’interno di questo canale di particolare death metal ha portato i Tomb Mold a sviluppare un percorso di crescita ed evoluzione molto interessante e ravvisabile nitidamente nella loro discografia.

Partendo dall’acerbo e grezzo disco Demo del 2016 il terzetto canadese, capitanato dal batterista (e cantante, altra peculiarità decisamente insolita) Max Klebanoff, è arrivato a pubblicare nel 2023 il quarto full length, con un EP preliminare. Potremmo dire che con “Primordial Malignity” (2017) i nostri abbiano migliorato la definizione e l’ordine del proprio suono in studio, e abbiano impostato in maniera più precisa il loro stile, stile che poi si è evoluto nel successivo “Manor of infinite forms” (2018), caratterizzato da ricerca di sonorità più elaborate e costruite. Questo ha portato inevitabilmente ad un album più lungo ma anche più monolitico, un po’ più difficile da mandare giù. Nel successivo “Planetary clairovoyance” (2019) il suono rimane pesante ma un po’ più “snello”, se così si può definire. In alcuni frangenti è presente la ricerca di un suono più sofisticato, ma non elaborato quanto il predecessore: qui l’idea è quella di una proposta più immediata e impattante, ma che sia soddisfacente anche dal punto di vista della complessità. Successivamente l’EP “Aperture of body” ha dato un assaggio di ciò che potevamo aspettarci dall’ultima uscita – di cui è un vero e proprio concentrato. Andiamo quindi a scoprire in che direzione sono andati stavolta i nostri ragazzi.

L’album si mantiene costantemente su livelli qualitativi elevati, non mostrando reali punti deboli o cali di ritmo, l’ascolto procede perciò fluido e senza intoppi. Da sottolineare “Will of whispers”, brano più completo e articolato del disco. L’inizio potrebbe ricordare “Collapse” dei Vektor, con questo suono acustico che si ripropone lungo tutto il lavoro. Poi però il pezzo si apre ad un death aggressivo al punto giusto, con riff che salgono e scendono di tonalità, doppie chitarre che si sovrappongono e una batteria possente e presente. Tanta varietà ma anche tanta fruibilità di un brano a tratti travolgente. In quanto a tecnica e varietà spicca anche l’ottima e trascinante “Servants of possibility”, che anticipa la chiusura dell’album, affidata alla title track di ben 11 minuti abbondanti. Qui l’avanzamento è roccioso e intricato, fra riff rampicanti che si intrecciano intorno alla batteria, caratterizzando in tal modo un pezzo vario e dinamico, sempre con meravigliose sezioni acustiche. Nella seconda parte del brano c’è un progressivo calo di ritmo, che ne esalta la dinamica; questo potrebbe non piacere a tutti, ma non va comunque ad intaccare una traccia di qualità ottima, come anche tutto il disco che va a concludere.

Lo stampo tombale che ispira il nome del gruppo deriva dal famoso videogioco “Bloodborne”, e da esso eredita l’oscura eleganza e la vena sanguinolenta, che lascia attoniti alla conclusione dell’ascolto del disco. Complessivamente quindi possiamo dire di trovarci davanti al lavoro più maturo e strutturato del gruppo, un album che rappresenta la prosecuzione naturale del loro percorso artistico, fondendo in un solo prodotto lo stile di tutti i precedenti, confermando i tre canadesi fra i più interessanti esponenti del death metal odierno. Certamente non rappresenta un punto di arrivo, in quanto tale formula risulta sicuramente migliorabile, ma ci troviamo comunque di fronte ad un lavoro di livello alto. La cosa buona è che mantiene la qualità dei precedenti in senso assoluto, ma alterandone la sostanza tramite una proposta musicale sempre più raffinata e personale, non nel senso intimista dell’espressione, ma proprio in termini di riconoscibilità della proposta. E questo è fondamentale.

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