Recensione: The Enigma Birth

Di Roberto Gelmi - 28 Giugno 2021 - 12:00
The Enigma Birth
70

Quarto capitolo per il supergruppo guidato da Timo Tolkki, di nuovo sulle scene con un disco targato Frontiers Records, dopo un periodo di gravi alti e bassi e la mancata nascita del progetto Infinite Visions. L’ex-Stratovarius negli ultimi tempi è stato al centro di una telenovela delle più assurde, ha rischiato di dire addio definitivamente al music business, ma sembra essersi risollevato ancora una volta. Con The enigma birth siamo comunque di fronte alla riproposizione di quanto concepito nel recente passato dal chitarrista finnico, con tanti ospiti illustri chiamati in causa ma qualità della musica scostante nelle 12 canzoni che compongono i 60 minuti dell’album.

L’avvio non è male, si punta su un power-speed quadrato con la voce in falsetto di Per Fredrik Åsly, in arte Pellek (in forze ai Dragonforce in sede live nel 2016). L’(ab)uso di doppia cassa e i tappeti di tastiera a momenti ricordano i migliori Stratovarius e Sonata Arctica, cosa chiedere di più? La title-track in sostanza è un bell’opener, ma è presto per cantar vittoria. La successiva “I Just Collapse” non coglie nel segno: la voce fatata di Caterina Nix –  scoperta e lanciata da Tolkki con il progetto Chaos Magic – non è sorretta da trovate melodiche convincenti e il pezzo si trascina stancamente verso l’epilogo, dopo sei minuti un po’ difficili da digerire.  In “Memories” troviamo ad affiancare la Nix niente meno che la vocalist degli Unleash the archers, band canadese nota agli estimatori del power moderno. Brittney Hayes sa ammaliare ma anche ferire se necessario, è un peccato, allora, sentirla poco valorizzata nella composizione tutta al femminile cucita su misura da Tolkki.

Dopo due pezzi poco memorabili, il disco potrebbe già implodere, ma fortunatamente è la volta di uno dei singoli del platter che strappa un sorriso a tutti i metal-fan di vecchio corso. Superato un intro con sintetizzatore, che ricorda i primi Stratovarius, a stupire al microfono è Raphael Mendes (Icon of Sin), il clone brasiliano di Bruce Dickinson. “Master of hell” è un brano ruffiano al punto giusto e subito memorizzabile considerato il ritornello catchy; si può sorvolare sull’eccesiva semplicità della canzone, questa volta è piacevole sentire le ritmiche quadrate di Tolkki.

A non funzionare troppo, invece, è la sorpresa più attesa. In “Beautiful Lie” la voce tanto bistrattata dei Dream Theater, James LaBrie (già ospite di Ayreon, Frameshift e nell’ultimo disco degli Evergrey), è sottoimpiegata e fine a se stessa. A tratti viene in mente uno dei pezzi del suo progetto solista con Marco Sfogli, le chitarre dropped danno un tocco dark che si sposa con la voce melodica del vocalist americano, ma le idee messe in campo sono troppo blande per lasciare il segno e si salva solo la parte solistica con buoni intrecci di chitarra. Quello che non convince, inoltre, è il raccordo con gli altri brani in scaletta, la traccia numero cinque sembra collocata a forza in scaletta proponendo un sound per niente power, ma che viene incontro al genere di appartenenza dell’ospite chiamato in causa.

Si torna su lidi power con “Truth”, pezzo canonico con Jake E a sfoggiare begli acuti melodici. Il cantante svedese (Cyhra, ex-Dignity, ex-Amaranthe) non ha perso lo smalto, questo basta, insieme a un veloce assolo, per regalare momenti godibili all’ascoltatore meno esigente. Discreta prova pure quella di Marina La Torraca (Exit Eden, ex-Avantasia live) in “Another Day”, ballad valorizzata da un assolo ispirato di Mr Tolkki che per qualche istante ci riporta ai tempi d’oro anche restando su bpm contenuti. Lo stile degli Stratovarius torna a fare capolino all’avvio di “Beauty and War”, secondo e ultimo pezzo riservato a Raphael Mendes che stupisce meno rispetto alla performance di “Master of hell”. Al suo posto ci sarebbe stato bene Geoff Tate, quello vero!

Gli ultimi venti minuti sono un saliscendi qualitativo ma ancora dobbiamo ascoltare la prova di un super ospite. Parliamo dell’ex-voce dei Rhapsody of Fire. “Dreaming”, la composizione più lunga in scaletta, vede, infatti, al microfono Fabio Lione, già special guest nel progetto Avalon nel 2014. Sembra di ascoltare un brano estratto da 9 Degrees West of the Moon dei Vision Divine (di cui Tolkki è stata anche produttore) ma la traccia non spicca mai il volo procedendo con il suo ritmo cadenzato in modo eccessivamente prevedibile.

In terzultima posizione troviamo un’altra ballad dal titolo evocativo “The Fire and the Sinner”. Il duetto “Brittney HayesJake E” nel ritornello è toccante, un’ottima accoppiata di voci. Peccato tutto sia estremamente effimero e duri solo 180 secondi. Il disco si chiude con due brani power metal vecchia scuola. In “Time” Marina La Torraca si trova a suo agio anche con le parti di doppia cassa e i power chord d’ordinanza, mentre l’indomito Fabio Lione chiude il cerchio cantando in “Without Fear”, traccia che prende avvio echeggiando il riffone di “Legions” (grande classico degli Stratovarius), per poi includere al suo interno alcuni barocchismi degni di nota.

 

Tanta carne al fuoco, dicevamo in apertura, gli ospiti arruolati da Tolkki sono come sempre l’unione di personaggi più e meno noti. Il progetto Avalon in passato ha dato voce a Michael Kiske, David DeFeis, Elize Ryd, Floor Jansen e altri ancora, questa volta ritroviamo Fabio Lione ma c’è anche la comparsa di James LaBrie. Da segnalare la prova di Jake E e Raphael Mendes, mentre il comparto femminile è meno brillante del solito. I pezzi migliori si contano sulle dita della mano – “The Enigma Birth”, “Master of Hell”, “Another Day”, “Without Fear” – non mancano i passi falsi purtroppo. Il problema principale di questi album è la loro natura estemporanea e commerciale, per rendere coeso un simile parterre di cantanti ci vuole una visione organica più approfondita.

Una nota meritano, infine, gli strumentisti che danno man forte a Tolkki, parliamo di Marco Lazzarini (Secret Sphere) alla batteria e Antonio Agate (ex-Secret Sphere, Sweet Oblivion feat. Geoff Tate) alla tastiera e alle orchestrazioni. Alle chitarre c’è spazio anche per Federico Maraucci (ex Icon of Sin) e Aldo Lonobile (Death SS, Secret Sphere), altro mastermind del disco.

Diamo atto, dunque, alla Frontiers Records di continuare a credere nella figura di Timo Tolkki, la sua voglia di scrivere e suonare musica è ancora genuina e, anche se i risultati non sono più quelli di un tempo, bisogna ringraziare il chitarrista finlandese per non essersi arreso.

 

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