Recensione: The Erinyes
Prendete uno zaino da trekking bello capiente e preparate tutto l’occorrente: oggi avete vinto una gita nell’Ade! O Averno, come preferite… insomma, scendiamo negli inferi!
Come? Non volete venirci? Ma vi porto a vedere le Erinyes!
Quasi dimenticavo: spero che non abbiate grosse problematiche familiari. Beh, quantomeno che non abbiate ucciso il capofamiglia, reso falsa testimonianza nei confronti della vostra consorte o detenuto una condotta non filiale…
Cosa? No, no…. non è nulla. Vi spiegherò poi, strada facendo.
La mitologia greca è ricca di riferimenti al mondo dell’ aldilà e pensate che questo topos letterario andava talmente forte da avere addirittura un intero filone dedicato denominato “katàbasis” o “catabasi” la c.d “discesa di una persona viva nel mondo dei morti“, per dirla in maniera più formale…
Attorno al 750 a.c Omero – ignaro della gioia che avrebbe dato agli studenti del liceo classico, che nei secoli a venire lo avrebbero maledetto – scriveva un grande poema epico denominato “Iliade”, in cui presentava le Erinni come “ctonie divinità di vendetta”: tre Furie dai corpi neri ed ali di pipistrello, che alle mani portavano flagelli borchiati di ottone, per torturare gli uomini immorali.
Le tre vocalist Mizhuo Lin (Semblant), Nicoletta Rossellini (Kalidia, Walk in Darkness) e Justine Daaè (Grey November, Elyose), presentano, tuttavia un aspetto ben poco inquietante, ma visto il carisma che trapelano, forse è meglio non scherzare troppo con loro.
L’estensione vocale delle tre cantanti esce in tutta la sua pienezza fin da subito con: “Life Needs Love” in cui più che Erinni, le Erinyes sembrano profetiche sibille in grado di trasportarci all’ interno di un tempio illuminato da sole fiaccole, portandoci in uno stato di trance quasi “cerimoniale”. Le tre voci si completano alla perfezione, spalleggiandosi e riuscendo a riempire le intercapedini di questa opera monumentale che è il loro album d’esordio.
Un sound così power e sinfonico che sembra venire fuori da uno scatolone impolverato e dimenticato in qualche angolo della soffitta, ma da cui esce quel maglione che invecchia bene e diventa “vintage”. Un capo che porta alla mente bei ricordi e prende il nome di Nightwish. L’etichetta reca l’anno domini 2004 e si riconosce nella tastiera presa in prestito da “Tuomas Holopainen” in “Nemo” con una “Drown the Flame” dall’ intro soave e tocco leggiadro ad opera di Antonio Agate, a cui si unisce un riff di chitarra molto consistente di Aldo Lonobile e una “You and Me against the world” che rassomiglia molto a “Ever Dream” in “Century Child”, per esattezza (2002).
La sezione ritmica spicca molto in canzoni come “On My Way to Love” in cui Michele Sanna (batteria) da un forte impatto emotivo, riuscendo in buona sinergia con il basso di Andrea Buratto, che riesce nell’ annoso compito di non risultare mai predominante, creando così una giusta sinergia e un nucleo energico pulsante che si mantiene costante durante tutto l’arco dei 48 minuti d’ascolto.
Molto apprezzabile anche il fatto di non avere grandi “cali di tensione”, mantenendo un’ ottima continuità, con canzoni trascinanti come “Betrayed” che convince per l’assolo alla chitarra ed altre , invece, più enigmatiche e ammalianti come “Paradise” decisamente più “sperimentale” con un basso leggermente più spinto rispetto alla media delle canzoni in album.
Molto interessante anche “Someday” trascendentale e sognante. “It’s Time” è davvero l’unica canzone a convincermi poco e va interpretata come giusto intermezzo narrativo, posto a metà album.
Un ottimo album, che vi farà venire voglia di cantare e affezionarvi a questa band.
Direi che le Erinyes meritano decisamente un’ anabasi (salita dall’ Ade verso il mondo dei vivi) e sono sicura che se le mie orecchie funzionano ancora bene, il tempo mi darà ragione e ben presto le vedrete salire verso l’alto…