Recensione: The Ever-Crushing Weight of Stagnance
Terzo full-length per i Misanthropy: “The Ever-Crushing Weight of Stagnance“. Come da tradizione pietra miliare per delineare ogni band in ordine alla possibilità o meno che sia in grado di affrontare senza paura i marosi del mercato discografico. O, anche, per stabilirne il grado di maturità e il livello tecnico/artistico raggiunto.
Operazione complessa, con il combo statunitense, poiché il genere bazzicato è il technical death metal del tipo non convenzionale. Sperimentale, si direbbe con maggiore aderenza allo stile in gioco. Stile il cui padrone indiscusso è la dissonanza, resa estrema da un approccio del tutto inusuale alla questione.
A fronte della maggior parte di coloro che amano sviluppare la propria musica con complessità ma con ordine e pulizia, i Misanthropy giocano sporco prediligendo un approccio apparentemente causale: sembrerebbe regni il caos, cioè, il che è soltanto una sensazione, giacché se si ha pazienza di passare e ripassare “The Ever-Crushing Weight of Stagnance” si scopre che ogni passaggio, ogni segmento, ogni tratto del disco ha un suo perché, che si lega agli altri. Che piaccia oppure no.
A contribuire alla percezione di un caos che non c’è sono sicuramente le chitarre, il cui sound volutamente sporco e arrugginito non aiuta certamente a mettere a fuoco l’immensa quantità di riff sparati alla velocità della luce da Kevin Kovalsky e José Valles, formidabili chitarristi, eccellenti anche nella proposizione di una fase solistica anch’essa sterminata, che avvolge l’LP come un cupo sudario.
A proposito di Kovalsky, va evidenziata la circostanza che sia anche il cantante del gruppo. Le linee vocali non sono poi molte, per cui discutere di album semi-strumentale non sarebbe un’eresia. Linee vocali affrontate con un roco growling, stentoreo, inintelligibile, che si amalgama perfettamente al fondamento musicale per un risultato che, appunto, non rientra al 100% nei canoni del ridetto technical death metal. Per il resto fa da davvero paura la sezione ritmica, agitata dal drumming devastante di Paul Reszczynski, che probabilmente non esegue una battuta uguale all’altra, ben felice di sfondare la frontiera dei blast-beats per entrare nei territori della follia. Con il session-man Mark Bojkewycz a volare fra i vari accordi con il rombo contenuto e profondo del suo basso senza tasti.
Quest’ultimo tipo di strumento rappresenta un po’ un modo di estrinsecare la natura complessa della propria musica. Una moda, forse, derivante dal saper suonare la strumentazione al massimo della sua potenzialità tecnica. Il che è abbastanza vero, sempre che il resto dei musicisti siano allo stesso livello di quello più bravo. Il che, nel caso in esame, risulta essere plausibile.
In generale, quindi, i Misanthropy riescono a produrre un sound lambiccato sì ma anche potente, a tratti violentissimo, brutale, aggressivo, sempre tenendo conto dello stile di appartenenza che, come detto, coincide con una forma sperimentale del technical. Un saggio, insomma, in cui questa particolare forma del death ne rispetta i dettami primigeni, aggiungendone altri sostanzialmente spuri ma che, grazie all’abilità degli attori, si amalgamo alla perfezione alla matrice di base.
Come lo stile, anche le canzoni risultano assolutamente difficili da digerire. La complicazione della foggia artistica di cui trattasi le rende episodi difficili da comprende in toto. Sembra quasi di non riuscire a interiorizzarle nella loro globalità, sfuggendo dalla memoria per via di un input al di fuori delle capacità umane o quasi.
Così, s’insinua il sospetto che i Misanthropy abbiano pensato prima a se stessi e poi a chi ascolta, travolgendolo da una quantità industriale di musica così complessa da lasciare disarmati. Alla fin fine fa piacere godere di qualche episodio più lineare e fruibile, ma sono pochi e si contano sulle dita di una mano (“A Cure for the Pestilence“).
Che abbiano esagerato, a voler essere così ostici e tortuosi?
Daniele “dani66” D’Adamo