Recensione: The Face of Fear
Il 16 novembre del 2018 uscirà il nuovo album della storica band danese Artillery, dal titolo ‘The Face Of Fear’ e prodotto dalla label Metalblade.
‘The Face Of Fear‘ è il nono album in studio della band ed è il terzo con la stessa lineup, con i fratelli Michael e Morten Stutzer unici sopravissuti della formazione originale degli anni ‘80.
L’avvicendarsi di più musicisti ha creato parecchi problemi agli Artillery, che sono arrivati a sciogliersi per ben due volte: la prima nel 1991 e, dopo essersi riuniti nel 1998, nuovamente nel 2000. Ma i fratelli chitarristi non si sono arresi e, nel 2007, hanno rimesso assieme la band, mantenendola stabile dal 2013.
Formazione salda, che però sembra stia ancora cercando la propria strada, allontanandosi dal sentiero del Thrash, intrapreso all’inizio e che l’ha portata al successo: difatti l’album ‘Legions’ del 2013 ha contenuti sperimentali mentre il successivo ‘Penalty By Perception’ del 2016 vira verso l’Heavy Metal più potente, con brani di ampio minutaggio (quasi un’ora di lavoro per dodici pezzi). E ‘The Face of Fear’? E’ l’album che forse chiarisce e determina la ricerca degli artisti, che non vogliono limitarsi a suonare a mitraglia, ma preferiscono spaziare nell’ambito della potenza dei suoni.
Prova ne è l’assunzione di un cantante, Michael Bastholm Dahl, che è bravissimo ma ha una tecnica più adatta all’Heavy che non al Thrash Metal (e visto che la maggior parte dei cantanti Thrash di oggi preferisce masticare chiodi e graffette piuttosto che caramelle, va bene così), dimostrando di sfoderare una buona potenza e una certa aggressività, senza alcuna cattiveria. Il risultato è che la band si adatta molto al suo stile, rendendo gli Artillery di oggi più simili ai Fifth Angel del 1986 e, per certi versi, ai Riot di ‘Thundersteel’ che non agli Slayer od ai Destruction.
Questo non è un male, ogni artista è libero di esprimersi come vuole e gli Artillery preferiscono farlo così, producendo un album diretto, senza fronzoli, privo di tutti quegli elementi che in ‘Penalty By Perception’ si sono dimostrati poco adatti, tanto che, mentre l’album del 2016 dura quasi un’ora, il nuovo platter si chiude dopo meno di trentacinque minuti, quasi la metà del tempo.
Questo non vuol dire che le canzoni Thrash non ci siano, come l’iniziale ‘The Face of Fear’, dirompente, esplosiva e determinata, con buoni cambi di tempo e la successiva ‘Crossroads to Conspiracy’, che inizia cupa ma poi parte a ‘tutto vapore’ con strofe potenti, un refrain diretto e gli assoli che si suddividono in sezioni più Heavy ed in altre più aggressive.
Un buon inizio, duro, selvaggio, potente ma non violento: è questo il Thrash degli Artillery del 2018.
Il combo esplora, poi, sentieri più melodici con ‘New Rage’, con la chitarra acustica che traccia l’inizio e le prime strofe cantate lente, come segnate da una rassegnazione di fondo, quindi il pezzo prende potenza e diventa un vero Heavy Metal, di quelli con la ‘H’ e la ‘M’ maiuscola, molto suggestivo ed enfatico.
Si ritorna a ritmi più veloci con ‘Sworn Utopia’, altro pezzo Thrash, e ‘Through the Ages of Atrocity’, traccia roboante che alterna i due stili e con uno scambio di assoli sul finale molto ricco.
Si ritorna all’Heavy Metal con la marziale ed epica ‘Thirst for the Worst’, mentre la successiva ‘Pain’ è una ballata che s’indurisce all’improvviso, con un ottimo momento composto da una breve fase acustica, un assolo al limite del psichedelico ed un altro di puro metallo.
Ed ora le note dolenti. Si, perché, forse, era meglio terminare l’album qui, invece seguono ancora due pezzi: ‘Under Water’, uno strumentale di circa due minuti che, benché dia veramente l’impressione di avere la testa sott’acqua, non si capisce bene che funzione abbia e ‘Preaching to the Converted’, un Thrash senza arte ne parte. Peccato.
Si segnala che ‘The Face of Fear’ uscirà in più versioni: quella digitale ed il Cd conterranno anche due bonus track: ‘Mind Of No Return’, dal primo Demo del 1982 e ‘Doctor Evil’ da ‘Legions’.
Concludendo l’album è ben prodotto, senza livelli troppo alti o compressioni eccessive dei suoni, richiamando i lavori della vecchia scuola, per cui, escludendo le ultime due tracce, possiamo dire che è buono. Forse può far storcere il naso ai fans della prima ora, ma, a parere del sottoscritto, è preferibile che il combo abbia prodotto qualcosa che proviene dalla propria vena artistica, piuttosto che studiato a tavolino con il solo scopo di vendere. Per ora va bene così, vediamo il futuro.