Recensione: The Final Day – Il Giorno del Giudizio
Il rock progressivo italiano è vivo. Gloriosamente vivo.
La fucina instancabile che nei suoi anni d’oro, i settanta, aveva sfornato una quantità impressionante di perle dal valore inestimabile si riaccende per gli Odessa a distanza di dieci anni per “The Final Day – Il Giudizio del Giudizio”: due lustri infatti passano dall’ultima studio release dei romagnoli, quello “Stazione Getsemani” che tanto aveva raccolto da critica e pubblico.
I “nuovi Area”, li avevano apostrofati un po’ ingenerosamente. Ingenerosamente non certo per mancanza di rispetto nei confronti della mitica prog band di Demetrio Stratos, quanto per aver bollato come derivativa una band che solo derivativa non è.
Certo, le reminiscenze sono troppe per poter parlare di nuova sensazione, ma il paragone a senso unico sta stretto ai nostri, non fosse altro per lo spiccato carattere hard rock melodico infuso nel loro songwriting.
Ugualmente a molti altri act, anche più “vecchi” degli Odessa, la band abbandonava l’idea di produrre nuovi album da studio, concentrandosi sull’attività live che non ha avuto praticamente soluzione di continuità. La scelta probabilmente non ha fornito la visibilità mediatica indispensabile alla sopravvivenza del genere, ma di sicuro ha contribuito a creare l’esperienza necessaria per affrontare il mercato discografico senza il timore reverenziale degli spettri di un passato così importante.
Per fare i conti con i modernismi dell’heavy rock attuale è necessaria la consapevolezza della propria raggiunta maturità artistica, nonché la sicurezza dei propri mezzi, unitamente alla caparbietà di voler tributare, ancora una volta, l’unico vero genere che ha fatto parlare di Italia nel mondo in campo hard rock.
Apprezzatissimi oltralpe e in America latina, gli Odessa tornano dunque con un disco dal titolo apocalittico, quasi a voler lanciare la sfida al neo-prog imperante da ormai troppo tempo, con una formazione in parte rinnovata: i membri fondatori Lorenzo Giovagnoli (voce e tastiere) e Valerio De Angelis (basso) sono affiancati oggi da Giulio Vampa (chitarre) e Marco Fabbri (batteria, già con The Watch).
La lezione degli Area (e dei loro colleghi) è tutt’altro che dimenticata, e anche nel nuovo album troverete una staordinaria interpretazione di “Cometa Rossa”, forse il brano che più degli altri mette in evidenza le doti di Giovagnoli, già apprezzato in questo senso nel 1998, sempre con Odessa, con la partecipazione al contest “Omaggio a Demetrio Stratos”. Tuttavia le citazioni, se così vogliamo chiamarle, non si limitano agli Area: fortissimi gli echi di Trip e Rovescio della Medaglia, e, per uscire dal territorio italico, di King Crimson e Deep Purple.
Proprio dai Deep Purple gli Odessa recuperano gran parte della loro verve melodica, ritrovando la forma canzone che fin troppo spesso era stata schivata, quasi esorcizzata da molti autorevoli colleghi, e osteggiata, seppur in maniera tutt’altro che esplicita, da numerosi cultori del genere.
Ad onor del vero, la matrice pop, nell’accezione più innocente del termine, è sì importante, ma anche affiancata con grande raffinatezza dagli echi jazz, funky e soul che forse contribuiscono maggiormente alla personalizzazione del sound degli Odessa.
Non è un caso, dunque, che tra l’arrembante title track, di chiara ispirazione purpleiana, e la psichedelica “Senza Fiato” si attestano senza troppi compromessi tutti gli stilemi già citati: il soul di “Leila”, il rock quasi leggero di “Taxi”, la struggente “Viene La Sera”, le accattivanti melodie di “Going South” e “Compra”, tutte appoggiate su un sound di Hammond straripante, ai confini del pomp, sono tutti brani che partecipano all’equilibrio finale di un album praticamente inattaccabile.
Non è affatto ridondante ripetere che l’hard rock italiano è vivo, vivace, vincente.
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Tracklist:
1 – Final Day
2 – Viene La Sera
3 – Taxi
4 – Compra
5 – Cometa Rossa
6 – Senza Fiato
7 – Piccolo Mio Sole
8 – Depèche toi
9 – Leila
10 – Going South