Recensione: The Final Hours
La fortuna di nascere e crescere nei dintorni di Gothenburg, patria indiscussa del melodic death metal o, meglio ancora, del gothenburg metal, è un qualcosa che pochi possono permettersi. Fra questi ci sono i Thermality che, con “The Final Hours” staccano il biglietto del secondo album in carriera.
Fortuna? Beh, per esempio il processo di sviluppo musicale ha già ben delineato in sé le spire del DNA, senza dover ricorrere a esperimenti e tentativi per disegnarne la forma. Però, per amore di verità, c’è anche il rischio che si suoni tutti uguale, obbedendo agli impulsi del suddetto genere, incarnati nelle cellule in via di sviluppo.
Insomma, l’unico sistema per non uscirne con le ossa rotte è quello di prendere i dettami di base del citato gothenburg metal, tirarli a lucido per poi costruire, nota dopo nota, qualcosa di moderno. Qualcosa che sia al passo coi tempi in tutte le fasi realizzative di un disco. Stando ben attenti a non scivolare nel modern metal, forma depotenziata del melodic, per rimanere entro i confini della musica natia.
In questo, il combo di Vara si mostra molto attento, proponendo un sound bello spesso, potente, massiccio. Con una particolare attenzione alle melodie da incastrare nelle canzoni del full-length. “The Final Hours“, difatti dà l’idea di essere stato studiato a tavolino sino al più piccolo dei dettagli, con il risultato che, a parere di chi scrive, risulta essere riuscita perfettamente l’amalgama fra moderno e antico.
Un sound quindi centrato, piacevole da ascoltare, che sa di fresco benché l’argomento di base sia il metal estremo, lato death. L’incedere è poderoso, marziale. Semplice e diretto. Senza divagazioni attorno al nucleo centrale che rappresenta l’ispirazione fondamentale dei cinque cavalieri della Västra Götaland. Da dimenticare, quindi, forme espressive evolutive o progressiste. Niente di tutto ciò. Anzi, in taluni momenti, per certi particolari di breve durata temporale, verrebbe quasi da pensare al power metal (‘Forsaken‘). Del resto, come si sa, il confine fra i due macro-generi a volte si assottiglia parecchio anche se, in via rigorosamente principale, in questo caso la matrice generatrice è formata dal death metal.
Del resto Ludvig Sommar non scherza, con il growling, riproducendolo con tono stentoreo e profondità di gola. E non scherza nemmeno con le clean vocals, correndo sulle linee vocali in modo fermo e deciso. Piglio totalmente professionale, per dirla in due parole. Il fulcro dell’LP, e anche in questo caso si può intuire sin dalle prime strofe, sono le chitarre. Inappuntabili sia nel creare con la ritmica un muro di suono niente male in quanto a impatto frontale, sia nell’incidere finissimi ceselli seminati a mani piene qua e là nelle varie song. Sia, ancora, a inventare assoli marcatamente armonici, dolci e ruffiani nell’accarezzare l’orecchio.
Senza infamia e senza lode la sezione ritmica, alla quale viene chiesto un lavoro sostanzialmente di accompagnamento. Pulita, semplice, lineare. Messa su per non rubare la scena ai tre mastermind più su citati. Pure in questo frangente, tanto per cambiare, nulla da eccepire in quanto a rigore e professionalità.
Da una parte un sound irreprensibile ma dall’altra, purtroppo per loro, si mette in moto la trappola-canzone. Pur rispettando alla perfezione (tanto per cambiare) la forma classica delle tracce rock’n’roll, queste ultime mancano del famoso quid in più. Come detto tutto è piacevole e gustoso da masticare, ma per poco tempo. Ogni singolo episodio è difficile da memorizzare, data una vena compositiva sin troppo scolastica e poco talentuosa. Nel senso che dopo viaggii da “MMXXIV” a “Divinity Pt. 2” sorge inevitabile la noia e tutto appare come un grande dejà-vu.
Appena sufficiente grazie a un sound senza pecche, “The Final Hours” va poco più in là per via di un songwriting scontato e facilmente prevedibile.
Nihil sub sole novum (niente di nuovo sotto il sole).
Daniele “dani66” D’Adamo