Recensione: The First Corpse On The Moon
Tortuosi e raffinati da interpretare, ecco arrivati alla loro quarta fatica discografica il duo Lethe. La band vede protagonisti Tor-Helge Skei, attivo nei Manes, e Anna Murphy, ex Eluveitie.
Il progetto è un miscuglio di tante attitudini e di una voglia di sperimentare che non punta tanto sul tecnicismo, quanto sulle ambientazioni. Il sound è un avantgarde metal onirico, per certi aspetti anche folk nei toni, che si veste di sfumature electro e post-rock. Non mancano momenti più melodici e pop, decisamente intensi e romantici per pathos, unitamente ad approcci jazz, soprattutto per mancanza di punti di riferimento.
Il full-lenght, a conti fatti, fluttua in un universo in cui i suoni arrivano vibranti, in cui lo spazio, senza confine viene contemplato con un filo di angoscia. Proprio questa prospettiva la si sente nell’angolazione più “metal” dell’album.
Immagini si susseguono, in una cornice nera pece di uno spazio che tutto avvolge. Siamo particelle, gocce di un mare che non comprendiamo, e nel quale l’eco del nostro stupore si espande, languidamente. La voce femminile è vera e propria astrazione che ci consola dall’immensità che non afferriamo, e che ci permette di essere al contempo liberi di esprimerci, slegati in uno spazio che non è mai opprimente. Ruotiamo su noi stessi, presi per mano dalle sinfonie di ‘With You’, in cui l’uso delle tastiera ci rammenta il symphonic più classico. Piccolo esempio, di un disco da vivere e respirare nel suo insieme, e che non si pone confini.
“The First Corpse On The Moon” è la coscienza che c’è in ciascuno, cosmo che ognuno possiede, e pian piano sveliamo nota dopo nota. Questa riscoperta interiore mostra lati di noi, luminosi ed oscuri, fremiti che traversano le nostre dita, e diventano un tutt’uno con il nostro ego.
Genialità allo stato puro per i Lethe, la cui proposta è certamente unica, e dimostra un’acuta personalità.. La voce di Anna, seppur melodiosa e conturbante, mantiene una tensione che va oltre il concetto di armonia, ed è questo un merito inconfutabile.
I Lethe non sono infatti caduti nella tentazione di puntare solo sulle melodie e tonalità femminili, lusinga a cui molti altri hanno invece ceduto negli anni. Come spesso accade in questi contesti sperimentali, in cui sono molteplici le contaminazioni ravvisabili, molti ascoltatori old school, o comunque aggrappati al concetto di estremo, storceranno il naso. Premesso ciò, vi consigliamo l’ascolto di un full-lenght di ampio respiro, in grado di trasmettere emozioni contrastanti, senza peraltro essere eccessivamente “languido”.
Stefano “Thiess” Santamaria