Recensione: The First Projection
Nascono nel 1998 i milanesi DZ Project, fino a un paio di anni fa conosciuti col nome di Deschutz, giunti oggi al secondo demo ufficiale, erede dell’esperienza del primo The Last Solid Experience e di alcuni rivolgimenti nella line-up. Difficile e probabilmente inutile tentare di catalogarne la proposta musicale, che presenta numerosi inserti da generi interni (heavy, prog, death, black) ed esterni (jazz, elettronica) all’universo metal, con un’attenzione sempre marcata per potenza e melodia Ed è in fin dei conti proprio quest’ultima la chiave che permette di articolare in modo sensato e costruttivo un background musicale tanto ampio e multiforme, frutto del contributo in fase di songwriting di tutti e quattro i membri della band.
Sicuramente i tre pezzi che compongono questo The First Projection hanno bisogno di una revisione generale prima di poter comparire su un vero e proprio full-length, ma creatività compositiva e brillanti strutture lontane dai soliti schemi (chi ha detto Dream Theater?) sono senza dubbio qualcosa in più di un buon punto di partenza. E un’occhiata ai brani è sufficiente per averne la conferma. L’attacco di The Astral Path to Omniscience può riportare alla mente il death scandinavo, quello dei Dark Tranquillity e dei primi In Flames, e uno screaming rauco e profondo pare confermare la prima impressione. Poi un estemporaneo stacco strumentale dalle sfumature quasi jazz e l’uso massiccio di filtri robotici sbilanciano la proposta musicale verso altri orizzonti, con una preponderante componente melodica che rende accattivanti anche le linee vocali più aspre. Interessanti, oltre che imprevedibili, i percorsi delle chitarre, peccato solo che il brano finisca un po’ troppo presto e che certe idee rimangano solo abbozzate e poco approfondite.
Buoni spunti, soprattutto a livello strumentale, anche nell’eloquente Under a Glacial Moonlight, forse la traccia migliore del lotto, giocata sul contrasto tra atmosfere pallide – riportate alla mente da occasionali riff nordici, figli di un black maturo ed evoluto – e allucinati inserti cibernetici. In rilievo il lavoro versatile delle chitarre, spesso protagoniste e a proprio agio nel ruolo di trascinatrici, con un uso ben calcolato e per nulla invadente di tastiere che intervengono con precisione a enfatizzare il suono futuristico dei passaggi più sperimentali. Convincente il cantato in fase di growl e screaming (che pure può essere migliorato), completamente da rivedere invece le voci pulite.
Positiva anche la strumentale Prysma, soprattutto nel finale, in cui emergono le soluzioni melodiche più interessanti. Emerge qui con chiarezza anche un basso finora opaco, non tanto – sia chiaro – per demeriti dell’esecutore, ma piuttosto a causa di una produzione non esattamente cristallina che fa poco per valorizzare la qualità del suono. In ultima battuta sono però le capacità della band ad avere la meglio e a conquistarsi un giudizio positivo e ottimista.
Certo, andranno compiuti ulteriori progressi nell’amalgama stilistico, e qualcosa va fatto a livello tecnico per ovviare alle pecche di un cantato pulito non sempre sufficiente, ma lo sforzo tendente all’originalità e un eclettismo consapevole e lungimirante sono i tasti giusto su cui insistere per affinare una proposta dalle potenzialità notevoli. Continuate così.
Tracklist:
1. The Astral Path to Omniscence (4:22)
2. Under a Glacial Moonlight (2005) (6:15)
3. Prysma (Instrumental) (4:44)