Recensione: The Furious Era 1979-1987
Non è mai facile parlare della scena musicale italiana senza cadere in facili campanilismi, nel bene e nel male. Scena, passata o presente che sia, che per fortuna non “vanta” solo fenomeni come Gabbani, Rovazzi o Fedez. Anzi, tra le varie eccellenze che il Bel Paese può annoverare, mi piace ricordare la gloriosa scena prog rock degli anni Settanta, seconda solo per quantità e qualità alla scena (madre) inglese. Ovviamente è l’umile opinione di chi vi scrive, ma gruppi come la PFM, Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, Area e compagnia suonante hanno scritto senz’altro pagine indelebili nella storia della musica rock italiana, ottenendo riconoscimenti prestigiosi perfino da Oltremanica.
Qual è il nesso tra due scene molto distanti come quella progressiva e quella hardcore e, più in particolare con i CCM, vi starete domandando? Ebbene, innanzitutto l’esser riusciti a farsi conoscere e apprezzare all’estero, tanto da imbarcarsi in tournée sia negli States, sia nel Vecchio Continente. Un miraggio per molte band di ieri e di oggi. Storie di vita vissuta, invece, per Negazione, Indigesti e gli stessi CCM o addirittura una consacrazione anche maggiore che in patria per i Raw Power (tuttora ospiti abituali dei principali festival esteri). In secondo luogo, parlando più nello specifico dei Cheetah Chrome Motherfuckers (right, guys?) è la band stessa a raccontare quanto siano rimasti colpiti dai gruppi sopracitati dopo averli visti dal vivo ed aver assistito ripetutamente alle loro prove sul finire dei seventies. E forse non è un caso che siano stati definiti il gruppo hardcore italiano più “progressivo”. Qualcuno li ha perfino accostati scherzosamente ai Voivod e non crediate che l’affermazione sia poi così azzardata. Basti ascoltare le strutture in progressione ad alto minutaggio di “Into The Void”, con accelerazioni improvvise, e le frequenti dissonanze.
Ma veniamo al prodotto in questione, “The Furious Era 1979 – 1987”, cofanetto edito da Area Pirata che racchiude tutto quanto prodotto dalla band in quegli anni: due EP, un LP, lo split tape e vari brani fatti riaffiorare dalle sabbie del tempo. Dato che i loro album erano sold out da tempo e si trovavano solo a prezzi esorbitanti e stavano spuntando fuori vari bootleg, la label indipendente, in collaborazione con il gruppo ed i due originari ingegneri del suono dei West Link Recording Studio, ha ripulito il suono dei master originali donandogli nuova verve.
Inutile analizzare tutti i singoli brani (una quarantina), vale senz’altro la pena di porre l’accento sui primissimi brani “400 Fascists”, “Tellyson” e “Alkool”. Registrazioni animate da una carica primordiale non indifferente per l’epoca. Forse la band più veloce e aggressiva di allora e un cantato, quello di Syd, davvero sguaiato e abrasivo. O l’EP “Furious Party”, che rappresenta un passo considerevole nell’evoluzione stilistica e compositiva dei CCM. Un brano come “Easy Target”, infatti, non ha niente da invidiare ai grandi classici del genere e sarebbe tutt’oggi una potenziale hit di successo. Il giro di basso e il riff iniziale possono riportarci alla mente alcune cose dei Dead Kennedys, ma l’accelerazione in coincidenza del ritornello, impensabile per i DK, è fulminante e memorabile. Anche “Furious Party” parte in maniera cadenzata, salvo poi dare sfogo alle pulsioni più aggressive. Che dire poi di “(We’re The) Juvenile Delinquency”, “Work (Means Death)” o le smitragliate di “Need a Crime/Ultracore”, che rappresentano una delle risposte più convincenti all’hardcore britannico dei Discharge. Da rimarcare in questa prima incarnazione della band, l’originalissimo lavoro di chitarra di Dome: riff semplici ma efficaci e tutti estremamente riconoscibili. Uscito di scena lui, sarà Antonio Cecchi a passare dal basso alla chitarra e dopo un fisiologico periodo d’assestamento la band darà vita a quello che è il piatto forte della loro produzione: l’LP “Into The Void”. Album registrato nel corso del tour negli Stati Uniti e lavoro della definitiva consacrazione e maturità. Come accennato le canzoni si allungano e le strutture diventano irregolari, in divenire. Non un filler o un brano sottotono, citerò le dissonanze voivodiane (attenzione, però, i Voivod di “Killing Technology” e successivi dovevano ancora venire) di “Enemy” e “Sorry/R.M.”. La sferzante “Strange Pain”, uno di quei pezzi che ti si stampano in testa in maniera indelebile e vengono fuori quando meno te lo aspetti. L’atipica “Crushed By The Wheels Of Industry”, con una sezione centrale che si presta(va) a varie improvvisazioni dal vivo tra la sfuriata iniziale e quella finale. E la debordante title-track dagli interessanti innesti orientaleggianti.
Insomma, un plauso ad Area Pirata per questa imponente opera di riedizione di lavori che hanno scritto la storia dell’HC italiano e non solo, ma soprattutto ad una band che non è mai scesa a compromessi, se non quelli interni per far coesistere tanti caratteri forti (“quattro teste, un unico cuore”), e che ha preferito sciogliersi probabilmente all’apice del proprio successo, piuttosto che proseguire per inerzia. A loro va riconosciuto il merito di aver dato un grosso contributo alla nascita del movimento italiano, dello storico Victor Charlie e del Granducato Hardcore.