Recensione: The Fury of Our Maker’s Hand
Secondo capitolo per i Devil Driver, band fondata e guidata dal cantante Dez Fafara dopo il suo split con i Coal Chamber. Sono passati tre anni dall’uscita del precedente album di questa formazione e nel frattempo il gruppo si è notevolmente evoluto ed amalgamato, riuscendo a raggiungere una maturità compositiva che lo spinge verso lidi sicuramente più elaborati e melodici,
sebbene non meno estremi dei precedenti.
Come è accaduto per altre band di genere simile o affine (i Lamb of God ad esempio) , i nostri cinque alla loro seconda uscita decidono di curare maggiormente la parte compositiva e degli arrangiamenti, nel tentativo di proporre un prodotto più vario e che riesca a catturare l’attenzione dell’ascoltatore per un tempo maggiore, anche se in questo modo pagano in termini di immediatezza. Non aspettatevi dunque di ritrovare in “The Fury of Our Maker’s Hand” i pezzi travolgenti, corti ed assolutamente diretti che erano il marchio di fabbrica del primo platter dei nostri, ma piuttosto preparatevi ad un ascolto più attento che alla pura furia affianca momenti riflessivi ed altri dedicati alla digressione strumentale nei quali si affacciano, oserei dire finalmente, assoli degni di questo nome.
Appena inserito il CD nel lettore possono già essere avvertiti i nuovi elementi del bagaglio musicale targato
Devil Driver: End of the Line, primo pezzo dell’album, si apre con un’intro in pulito molto d’atmosfera la quale sale fino ad esplodere in un riff che sembra preso pari dal disco precedente, ma che, forse proprio per questo, sembra accostato in maniera un tantino eterogenea alla parte precedente. Non è comunque difficile relegare nel dimenticatoio questa sensazione e lasciarsi trasportare dalle chitarre fino all’esplodere della voce di
Dez, la quale è devastante come sempre: dopo il primo minuto di canzone già si capisce che la produzione è
pressoché perfetta, con chitarre pesantissime, batteria in primo piano e voce che sputa sangue da tutte le parti. Al solito il lavoro della sezione ritmica, batteria in primis, riesce ad essere originale all’interno di un genere nel quale oramai è difficilissimo introdurre qualcosa di nuovo, encomiabile ad esempio è l’utilizzo del blast-beat accoppiato alla doppia cassa continua sul break che introduce alla strofa. Per il resto la canzone avanza reggendosi su continui cambi di tempo, chitarre che si intrecciano eseguendo parti diverse e strofe trascinanti alle quali seguono ritornelli che spezzano il ritmo.
Al buon inizio segue Driving Down the Darkness, pezzo simile per caratteristiche al precedente nel quale si fa ancor più notare la continua ricerca del cromatismo da parte dei chitarristi Mike Spreitzer e Jeff Kendrick , sia in fase melodica che armonica. Ciò crea indubbiamente una sonorità molto originale, che tuttavia potrebbe essere odiata da coloro che preferiscono arrangiamenti più classici. Si prosegue poi con Grinfucked, a parere di chi scrive l’episodio meglio riuscito dell’album. L’aggressività tipica dei nostri in questa traccia si fonde con la ricerca stilistica e l’ascoltatore si ritrova trasportato in un vortice di scale minori armoniche che danno alla composizione un gusto orientaleggiante senza però levarle nulla dal punto di vista della rabbia trasmessa. Continuando con il crescendo inaugurato due pezzi prima veniamo catapultati all’interno del pezzo più diretto ed “straight in your face” dell’album: sembra di ascoltare una nuova I Could Care Less, ma in realtà si è solamente di fronte ad una canzone originale chiamata Hold Back the Day, la quale ci fa capire che, sebbene i nostri abbiano deciso di dedicare più spazio all’aspetto melodico e compositivo della questione, la loro priorità rimane comunque ottenere il più grande impatto sonoro possibile.
Sarebbe inutile continuare nel track by track dell’album, in quanto le caratteristiche dei brani bene o male si ripetono, sebbene, come già detto più sopra, Dez ed i suoi riescano in questo album a raggiungere una varietà compositiva superiore rispetto al disco precedente. Da citare rimangono Ripped Apart, nella quale finalmente il basso riesce a ritagliarsi un suo momento di visibilità attraverso un suono assolutamente metallico ed in linea con i gusti dell’album, ed i due pezzi finali ossia Before the Hangman’s Noose e la melodica e tirata The Fury of Our Maker’s Hand, in cui la band riesce a recuperare lo smalto che si perde un po’ nei pezzi centrali del platter.
Andando a concludere posso dire che The Fury of Our Maker’s Hand riesce a migliorare le già più che buone qualità che i
Devil Driver erano riusciti a mostrare nel loro precedente lavoro, diversificando la proposta senza perdere nulla dal punto di vista del tiro e dell’aggressività. I pezzi sono decisamente più lunghi, sebbene scorrano sempre assai velocemente e senza risultare noiosi o ripetitivi. La fantasia ritmica, la voce ed il drumming sono sicuramente i punti di forza di questa band che tuttavia dovrebbe ancora applicarsi dal punto di vista della varietà e degli arrangiamenti per poter raggiungere vette assolute. In ogni caso la direzione intrapresa è quella giusta ed il risultato assolutamente valido… ed in questi casi quando dico valido intendo devastante.
Tracklist:
1- End of the Line
2- Driving Down the Darkness
3- Grinfucked
4- Hold Back the Day
5- Sin & Sacrifice
6- Ripped Apart
7- Pale Horse Apocalypse
8- Just Run
9- Impending Disaster
10- Bear Witness Onto
11- Before the Hangman’s Noose
12- The Fury of Our Makers Hand