Recensione: The Future Bites
L’ascesa di Steven Wilson negli ultimi trent’anni è stata esponenziale e inesorabile. Celebrato dapprima per i suoi Porcupine Tree, ricercato poi ovunque per le sue doti da produttore, Steven si è ritagliato una carriera di successo presenziando in numerosi progetti (Blackfield, No-Man, Storm Corrosion, Bass Communion su tutti) e a partire dal 2008 si è posto come artista solista con la ferrea intenzione di espandere la sua fama. Il tutto nella piena consapevolezza dell’inevitabile rischio di alienarsi quei fan che avevano contribuito alla sua affermazione.
Presentiamo oggi The Future Bites, suo sesto album solista, prova inconfutabile del fatto che Mr. Wilson non sia minimamente preoccupato da tale incognita. Inizialmente previsto per giugno 2020, ma posticipato per via dell‘insorgenza del COVID 19, il platter ha fatto parlare di sé a partire dalla pubblicazione del singolo “Personal Shopper” a marzo 2020. Il popolo dei social media si è diviso tra i detrattori, che, ancora sognando un The Raven That Refused To Sing pt.2 e invocando un ritorno dei Porcupine Tree, si sono letteralmente scagliati su Wilson, e i promotori, i quali, rivendicando il sacrosanto diritto di espressione dell’artista, hanno lodato l’ennesimo cambio di direzione del proprio eroe.
Da notare che un simile processo alle intenzioni era già avvenuto con “Permanating”, brano sicuramente controverso del precedente album To The Bone, che aveva scontentato una larga fetta di fan e che, quasi a voler infierire, è stato presentato in sede live e nelle interviste come la canzone della quale Steven andasse più fiero. Una provocazione. I numeri tuttavia hanno dato ragione a Wilson che con To The Bone nel 2017 si è posizionato terzo nella classifica inglese (superato solo da Ed Sheeran ed Elvis Presley).
Secondo fonti ufficiali, i temi trattati in The Future Bites:
esplorano i diversi modi in cui il cervello umano si è evoluto nell’era di internet e mostrano all’ascoltatore le dipendenze del XXI secolo. TFB è un luogo dove esperimenti pubblici mettono in mostra gli effetti della tecnologia nascente sulla nostra vita. Dalla shopping-terapia fuori controllo, ai social media manipolatori e la perdita dell’individualità, non si tratta di una visione cupa di un’ imminente distopia, bensì una lettura curiosa di un mondo reso ancora più strano e diviso dagli eventi del 2020.
Online THE FUTURE BITES™ è una porta aperta su un mondo fatto di potere d’acquisto, dove qualsiasi cosa è facilmente vendibile e nulla è troppo random per essere messo in vendita. Ispirato ai manufatti del XXI secolo come i mattoni in ceramica di Virgil Abloh e l’ossigeno canadese in scatola di Vitality Air, TFB è un universo progettato per il consumatore, accessibile e che crea dipendenza a tutti, dal fan informale al collezionista accanito.
Volendo sottolineare la natura provocatoria del concept, il prodotto è disponibile in formati molteplici: su tutte le piattaforme digitali, in vinile, cassetta, CD e su box set edizione limitata che contiene i CD, la versione strumentale dell’album, materiale bonus (tra cui 6 brani aggiuntivi e numerose versioni rivisitate dei brani dell’album, come l’extended mix di 19 minuti di “Personal Shopper”), una cassetta di demo e un Blu-Ray contenente una serie di video e le versioni dell’album in audio surround 5.1 e Dolby Atmos. Per non parlare della versione ultra deluxe a tiratura limitata (1 copia) venduta a 10.000 sterline. Inoltre il sito ha reso disponibile merch in edizione limitata – dalla carta igienica, alle perforatrici brandizzate.
A questo punto, però, è necessario distiguere attentamente il TFB Dichiarazione Artistica dal TFB Album inteso come raccolta di brani musicali che andiamo ora a esaminare. Incominciamo la disamina del disco.
Veniamo accolti da “Unself”, un intro di appena un minuto costituito da un synth pad spettrale, una chitarra acustica pesantemente effettata, un beat che pare l’inizio di un brano trip-hop e la voce di Wilson che ci dà il benvenuto avvicinandosi progressivamente. Neanche il tempo di soffermarci sul nuovo ambiente che veniamo catapultati nella successiva “Self “che parte bruscamente e senza compromessi. Il brano spiazza presentandoci un elettro-pop tipicamente inglese che proietta la mente dell’ascoltatore alla scena hipster di London Shoreditch e al suo leggendario Rough Trade, spesso e volentieri frequentato da Steven. Il sound è stellare, nel senso che sembra arrivato da un altro pianeta. Una bella chitarra funky domina il ritornello e i campionamenti in generale sono davvero ben riusciti. Ciò che purtroppo balza all’orecchio più di tutti gli altri elementi combinati è il coretto all’unisono, il famigerato “tu-du-du-du-du” che mette in chiaro una volta per tutte quali siano le intenzioni del mastermind: gran parte dell’album è fondamentalmente musica dance elettronica, ben lontana dal prog di Raven o dall’heavy rock di In Absentia. O lo ami o lo odi.
“King Ghost” percorre vie già conosciute e per certi elementi nella strofa sembra la prosecuzione di “Song Of I” dal precedente To The Bone. Molto bella l’apertura nel ritornello, ci riporta a “No Part Of Me” dal suo secondo album solista Grace For Drowning con una maggiore presenza di elettronica. Delicato e intimo con una vena di sex-appeal nella voce, quasi un tentativo di impersonare il ruolo di pop-star.
Il successivo “12 Things I Forgot” è un brano un po’ ruffiano con il tipico giro di accordi che accontenterà i fan di PT e Blackfield. Purtroppo siamo lontani dai fasti del passato e nonostante sia piacevole, il brano fallisce nell’intento di portarci nella via dei ricordi riducendosi a una semplice canzonetta.
A questo punto è necessaria una pausa per riflettere su quanto ascoltato finora. Da un lato ci si chiede se Wilson stia giocando le sue carte migliori ambendo a una rivoluzione pop di cui essere protagonista indiscusso. D’altro canto i temi dell’album sembrano proprio deridere tale attitudine. A volte pare che Wilson stia dichiaratamente tentando di scontentare i fan della vecchia guardia, pronto a contare le critiche con un certo compiacimento, come se tutto fosse parte di un piano, ben sapendo che TFB deluderà una larga fetta di sostenitori. Forse è proprio questa la genialità del lavoro. Resta il fatto che nulla finora ha davvero lasciato il segno.
Proseguiamo con “Eminent Sleaze”, secondo singolo pubblicato nel 2020. Ritornano le sonorità tipicamente british, ritornano i coretti all’unisono (questa volta assolutamente terribili) accompagnati da una sezione d’archi in stile 70’s disco. Ancora una volta molta enfasi viene messa sulla sua voce dall’attitudine pop a discapito del songwriting. Siamo di fronte a un funk groove di bassa fattura che va avanti per 4 minuti concludendosi con un ultimo fastidioso coretto a cappella.
“Man Of The People” promette bene, con delle belle chitarre elettriche pulite sorrette da un beat elettronico. La progressione della strofa sembra un nuovo “Russia On Ice” mentre spicca la bella apertura dal sapore tipicamente pop nel ritornello. Da notare l’uso intelligente dei sequencer con il rullante sostituito da un suono che ricorda quello di un vetro che si infrange. Assistiamo poi a un gradevole incremento in dinamiche, un interessante gioco con la voce che si mischia sapientemente con l’elettronica. Il brano scorre in maniera piacevole arricchito da dei backing vocals gustosi. Wilson gioca nuovamente sul sicuro senza però presentare nulla di grandioso.
“Personal Shopper” è il punto centrale dell’album sia a livello di contenuti, sia dell’immagine elettro-pop del nuovo Wilson ed è il brano più dark dell’intero album. Il groove è accattivante e il ritornello presenta l’ennesimo coretto all’unisono sicuramente orecchiabile e aggressivo. Il successivo coro armonizzato con uno scambio di accordi interessante ci riporta a sonorità conosciute, tuttavia la sovrapposizione degli elementi non funziona del tutto. Molto d’effetto l’assolo finale di guitar synth e dove un uso intelligente del feedback sul delay (un suo vecchio trucco) funge da collante tra gli elementi sopracitati permettendoli finalmente di funzionare bene insieme.
Negli ultimi brani in tracklist l’album regala momenti per fortuna più esaltanti. A parere di chi scrive, la successiva “Follower” rappresenta il punto più alto dell’album e un buon sperare per quello che potrebbe essere il Wilson del futuro. Gli stessi suoni elettronici e spaziali presenti su tutto il disco assieme al solito fare scanzonato sono in questo caso gli attributi di una traccia non necessariamente perfetta ma quantomeno con del vero carattere. Un refrain pop a’ la Taylor Swift, un testo semplice che espone e denuncia la radicalizzazione online tipica del mondo dei social media, un assolo di chitarra sporco e sentito, un songwriting azzeccato, i cori armonizzati a cui Steven ci ha tanto abituati nei decenni. Il colpo di grazia viene sferrato con uno splendido arrangiamento strumentale dove viene riagganciato il refrain iniziale. Puro genio. Con “Follower” finalmente convergono le varie anime di dell’artista inglese. Il cerchio si chiude con “Count Of Unease”, brano molto intimo e sentito, che ci mostra uno Steven Wilson riconoscibile e sicuramente autoreferenziale. I piacevoli accordi di pianoforte sostenuti accompagnati da suoni ambient, synth pads perennemente fluttuanti e sound FX evocativi lasciano un senso di sospeso, di spazialità e soprattutto di speranza in quanto, assieme alla precedente, questa traccia alza sicuramente la media.
Queste le impressioni legate all’ascolto. Per tentare di tirare le somme, dobbiamo tuttavia recuperare TFB Dichiarazione Artistica in modo da affiancarla alle composizioni. Siamo al cospetto di un lavoro audace e provocatorio, con poco spazio per i compromessi, per il quale Steven verrà sicuramente fatto a pezzi, ma forse è proprio quello che vuole (si dice che, bene o male, basta che se ne parli). Musicalmente si tratta di un album mediocre ma, chiamiamola attenzione selettiva o più propriamente ipocrisia, come descritto dal concept, tendiamo a dare maggior valore al creatore che al prodotto stesso per cui risulta difficile non concedere il beneficio del dubbio.
In altre parole, il dubbio è che con The Future Bites Wilson stia ripercorrendo le orme manzoniane, alludendo all’idea che un artista già affermato troverebbe mercato e consenso della critica per qualsiasi opera produca, al di là della sua qualità specifica, purché in edizione numerata e garantita nella sua autenticità ed esclusività. La sensazione conclusiva è che il mondo non abbia assolutamente bisogno di The Future Bites, eppure con questo in mente intendo correre a riservarmene una copia.