Recensione: The Future In Whose Eyes?

Di Gianluca Fontanesi - 12 Giugno 2017 - 0:01
The Future In Whose Eyes?
Band: SikTh
Etichetta:
Genere: Djent 
Anno: 2017
Nazione:
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80

Prima o poi la bomba sarebbe stata sganciata, ed eccola qua puntuale come un orologio svizzero. Non ci sono altre parole per definire l’attesissimo album dei Sikth che, in seguito alla reunion e all’Ep Opacities pubblicato dopo una campagna di crowdfunding di buon successo, vede finalmente la luce e arriva a martoriarci i padiglioni auricolari con la solita, consueta genialità. Va detto a rigor di cronaca, ma ormai dovrebbero saperlo anche i muri e i vostri animali domestici, che molti modi e tecniche di suonare mathcore, djent e compagnia bella sono proprio da attribuire al combo di Watford e al capolavoro The Trees Are Dead & Dried Out Wait For Something Wild del lontano 2003, che ogni amante dei generi e non solo dovrebbe possedere e custodire come una reliquia. The Future In Whose Eyes? esce sotto la neonata Millennium Night, divisione della più famosa Peaceville, e ci consegna i Sikth in forma smagliante e con una formazione a 2 cantanti bislacca solo in apparenza. L’artwork è opera di Meats Meier e rappresenta, secondo le sue stesse parole: “La razza umana portata al declino dal suo stesso bisogno di innovare”. Le voci sono state registrate nello studio di Mikee e nel ben più famoso R&R Studios di un certo Adrian Smith, mentre il resto nel rinomato Monkey Puzzle House. Le cose sono quindi state fate in grande, per non dire in grandissimo, e il risultato? Giudicatelo voi!

Potenza, ignoranza, irriverenza, fantasia, tecnica, psichedelia, progressione, groove e potremmo andare avanti per un altro po’; shakerare tutto e otterrete la musica dei Sikth, più o meno. Per fare i Sikth bisogna essere i Sikth, inutile girarci attorno; ci hanno provato in tanti e non ci è riuscito quasi nessuno, per essere in grado di mischiare una decina di generi musicali e farli funzionare alla perfezione bisogna non essere l’empirista di turno ma musicisti estremamente talentuosi e di buon gusto. The Future In Whose Eyes? unisce crossover, progressive metal, djent, math, funky, hardcore, thrash e chi più ne ha più ne metta, spesso anche in un unico brano. Musica per psicopatici? Può darsi, i Sikth di certo non sono musicalmente normali, il problema è che funzionano oltre ogni aspettativa e senza aver osato più di tanto!

Vivid, uno dei brani dati in pasto al pubblico in anteprima, apre le danze in maniera serratissima e con un gran riff, il basso slappa che è un piacere e i cantanti si palleggiano il ruolo alla grande andando dallo scream al clean passando per il rap condendo con degli urli che sembrano usciti direttamente da Mortal Kombat con Liu Chang in preda ad un colpo apoplettico; oh guarda, c’è un ascensore, ci dispiace per voi ma inizierete presto a cantare ogni singola parola dei deliranti teti dei nostri come se non ci fosse un domani. Il ritornello è orecchiabile e catchy come tutti quelli proposti nell’album; il brano accelera e rallenta a piacimento e il ponte vi manda direttamente al manicomio, la parola d’ordine è groove, quello spietato, assassino, che vi rende impossibile stare fermi.

Il riff portante di Century Of The Narcissist? è una bestialità, un capolavoro di nervosismo messo in musica che, parafrasando il testo, traccia le tue ossa sul tuo telefonino; già si può intendere l’argomento del brano e il suo sviluppo, che va da sfuriate thrash per passare da un ponte più o meno onirico con risvolti malinconici per poi pestare ancora e buttare giù tutto ciò che incontra. The Aura abbassa l’aggressività in favore di un riffing più “solare” e melodico; nel momento in cui la strofa sembra spegnere il tutto, il brano esplode e il ritornello arriva con la massima naturalezza possibile. Ottimo e bene incastrato il ponte.The Ship Has Sailed è il primo dei tre intermezzi del disco e si tratta solamente di un piccolo estratto parlato che dà respiro all’ascoltatore creando anche la giusta tensione per il proseguo della tracklist.

Weavers Of Woe è un altro grande brano che gioca bene le sue carte in favore di una gran varietà di fondo, strofe aggressive, ritornello fumoso e criptico e un ponte che va a pescare dal progressive metal completando un quadretto di per se già ricco. E’ il brano più lungo del disco (quasi 6 minuti) ed è quello meno “easy”; cresce comunque parecchio con gli ascolti e lo si arriva ad apprezzare più lentamente rispetto al resto del lotto, ma sono dettagli. Cracks Of Light ospita al microfono Spencer Sotelo dei Peri Peri, Periphery per i più, ed è un altro gran bel brano con un fare molto radiofonico e un ponte che passa dal pop ai blast beat ottenendo un gran risultato. Golden Cufflinks possiamo considerarlo come il lentaccio dell’album e fa la sua porca figura con un cantato atipico durante la strofa stoppata che va a contrastare la mielosità di ponte e ritornello. Forse il brano più debole tra quelli proposti, se proprio dovessimo sceglierne uno, debole ma in ogni caso su livelli discreti. The Moon’s Been Gone For Hours è il secondo, parlato intermezzo.

Riddles Of Humanity è pesantissima e un vero e proprio pugno in faccia di varietà e follie assortite con tanto di ritornello invocante luna piena e zombie. Il lavoro delle chitarre tra un riff cromatico e l’altro è pazzesco, come per tutti i brani del resto, e la produzione, manco a dirlo, è senza sbavature e più mainstream possibile. No Wishbones la conoscete tutti già da un po’ e di certo non è migliorata né peggiorata da quando era stata pubblicata con largo anticipo rispetto all’uscita del disco vero e proprio. Brano discreto ma nulla più, un buon passaggio verso quello che chiuderà l’opera e si rivelerà invece uno dei momenti migliori qui offerti dal sestetto. Ride The Illusion ha dalla sua aggressività, potenza, strofe assassine in 2/4, un inciso che è pura ignoranza e un ritornello che è tra i migliori qui composti; francamente un grande brano e un’ottima chiusura di ostilità, il terzo e ultimo inciso parlato, When It Rains, non fa testo.

Possiamo concludere ampiamente appagati e soddisfatti: i Sikth non deludono affatto le aspettative e tornano alla grande con un disco fresco, esaltante e che in alcuni frangenti è una vera e propria bomba. The Future In Whose Eyes? può suonare per radio alle 2 del pomeriggio come può suonare in mezzo a un festival metal; è un album che può sì essere definito commerciale e ruffiano, dalla melodia facile, ma dietro ha arrangiamenti fantastici, gusto e non risulta mai banale. I due cantanti funzionano e si sono amalgamati benissimo mentre tutto il resto della band è particolarmente in palla ed ispirato a livello di songwriting; si può imputare un po’ di faciloneria e un’eccessiva linearità delle composizioni a livello puramente strutturale, ma la copertina parla appunto di un’umanità soffocata dal voler a tutti i costi innovare, quindi siamo perfettamente in linea col tema e va benissimo così. Se siete fan di Protest The Hero e tutta la compagnia bella non fatevi scappare i Sikth nemmeno nelle loro forme embrionali dei primi anni 2000: band fondamentale allora e fondamentale ancora oggi, perché di gente così sfacciata ne abbiamo proprio bisogno.

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