Recensione: The Gang’s All Here
Un attesissimo ritorno per la band del New Jersey che dai bassifondi “Skid Row” ha risalito le vette del metal più lezioso, per lanciarsi in stage diving dai palchi di mezzo mondo.
O almeno, lo ha fatto fino agli anni 2000, visto che poi questa pratica è divenuta illegale a causa di un fattaccio avvenuto durante un concerto dei Pearl Jam.
Insomma, il grunge si riconferma essere l’amico che alla festa riesce brutalmente a rovinare l’atmosfera. Viene in effetti sempre spontaneo citare gli anni ’90 come il secolo dell’ avvento di questo genere e la progressiva “scomparsa” degli altri gruppi hair/glam metal festaioli.
Un po’ come un asteroide che piombato sulla Terra 66 milioni di anni fa provocò una catastrofe planetaria e fece mutare il clima causando l’estinzione dei dinosauri.
Ma indovinate? Gli Skid Row per fortuna non sono dinosauri. Si sono messi il cappotto per sopravvivere alle glaciazioni e hanno continuato a produrre del materiale in studio, passato però in sordina rispetto al mainstream: Subhuman Race (1995) – Thickskin (2003) – Revolutions Per Minute (2006).
Se tutti questi album, però, non suonavano veramente distintivi, pare che finalmente il momento propiziatorio sia giunto. I late 80s sono ritornati, stanno bussando prepotentemente alla porta e come molte altre band, gli Skid Row si sono sentiti di aprire al loro fasto: “The Gang’s All Here”!
In casa sembrano esserci davvero (quasi) tutti i membri della fortunata formazione dell’ ’86: Rachel Bolan al basso, Dave “The Snake” Sabo e Scotti Hill alle chitarre.
Manca però l’affascinante cantante Sebastian Bach, reo di aver infranto tanti cuori nel corso della sua carriera: sostituito per l’occasione dallo svedese Erik Grönwall. Un biondino classe 1987, celebre per la militanza negli H.E.A.T che in quanto a voce (ma anche al resto) non ha nulla da invidiare frontman canadese dalla chioma fluente.
Un ritorno decisamente “col botto” che riprende il sound sleaze già presente in album memorabili di inizio carriera come l’omonimo “Skid Row” e “Slave to the grind”.
La festa è servita. L’alcool è sempre nello stesso posto e la musica è quella giusta! Finalmente.
“Hell or High Water” è un idioma e una dichiarazione d’intenti: significa che i ragazzi sono “determinati a farlo, a dispetto delle difficoltà che troveranno” e lo rivelano con la prepotenza dei riff di chitarra, i fragorosi groove di batteria ad opera di Rob Hammersmith e un grandioso Erik Grönwall sempre all’ altezza delle aspettative, che entra subito nei primi venti secondi con la sua voce incisiva. Il cantante dimostra tempra e carattere trascinante e al ritornello ti obbliga letteralmente a seguirlo: don’t need someone to save me / I’ll be there come hell or high water / can’t break the will he gave me / come the hell or high-yi.
Si passa a “The Gang’s All Here” in cui Bolan da sfoggio della sua confidenza al basso con un bel giro tosto e corroborante, efficace a mantenere in piedi la ritmica assieme alle veloci sferzate di Hammersmith. Il riff di chitarra segue lo schema e fila tutto per il verso giusto, la voce graffiante di Erik fa solo da perfetto completamento ad un’ottima titletrack.
La sezione ritmica lavora sempre a pieno regime su tutte le dieci tracce, concedendosi raramente momenti di pausa se non per un lieve decremento in “October’s Song”, mentre l’accoppiata Sabo & Hill alle chitarre si riconferma perfettamente in simbiosi e sempre in grado di fornire un’ottima messa a punto e varietà armonica.
Dal punto di vista della scrittura, però, l’assenza di una ballad vera e propria alla “Wasted Time” non si rimpiange mai. Anzi, sono proprio i toni acerbi e la presenza di testi semplici e funzionali all’ accompagnamento musicale a rendere compiacente e spregiudicato questo album.
Tracce come la più aspra “Not Dead Yet”, con una chitarra acida come un limone (uno di quelli che però ci concederemmo volentieri) o la sickening accoppiata di chitarra “electrica” in “Time Bomb” ne sono un brillante esempio. Della bomba ad orologeria Bolan qui ce ne fa sentire tutto il ticchettio. Un testo da filastrocca cantato da un serial killer heavy metal: I’m a ticking timebomb / tick , tick, tick / boom!!
Il tempo scorre e siamo già “Ressurrected” sì, ma in un’ epoca di riff clandestini e percussioni corrotte, cui la voce di Erik Grönwall fa sempre da perfetta spalla.
Anche se a dirla tutta la contagiosa frizzantezza e l’irresistibile estensione vocale di Erik Grönwall si denota maggiormente in tracce come “When The Light Come On”, in cui addirittura sorge spontaneo chiedersi se ci sia la compiacenza di una seconda voce femminile, data la sua naturale capacità di raggiungere note tanto acute.
Si chiude con “World On Fire” che è un titolo abbastanza iperinflazionato, tanto che anche Slash & Myles Kennedy lo hanno scelto per un album del 2014.
Dare fuoco al mondo va sempre molto di moda in ambito rock… è quell’ evergreen che ricorre sempre (hanno una traccia con questo nome gli Stratovarious, i Firewind…) ma poi se ci aggiungiamo davanti “Set the…” allora arrivano anche i Symphony X e David Bowie. E non conto nemmeno sulle dita delle mani tutte le canzoni che nel testo citano: “…set the world on fireeeee”.
Insomma, tutta questa gente piromane (e apparentemente poco originale) però, non ha niente a che vedere con questa “World On Fire” che ti fa venire voglia di tirare fuori i fiammiferi dalla tasca e accendere la griglia per buttarci sopra un po’ di carne fresca. Ha un assolo di chitarra tagliente, dei riff martellanti (non come un martello pneumatico ma come il vicino che la domenica mattina ti sveglia per mettere il quadro) e da quel giusto fastidio pruriginoso e sopra le righe che serve a smuoverti qualcosa dentro.
Aprire la porta a 31 anni di distanza da “Slave to the Grind” e ritrovarsi davanti “The Gang’s all here” è una deliziosa sorpresa. Riabbracciare lo stesso immutato mood, la stessa voglia di essere vivi adesso, come dicevano i latini: “hic et nunc” o qui ed ora, in questo stesso momento… è insieme magico e travolgente.
I veri fan se ne innamoreranno alla follia.
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