Recensione: The Gereg

Di Elisa Tonini - 5 Novembre 2019 - 7:24
The Gereg
Band: The HU
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2019
Nazione:
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68

Rendere protagonisti strumenti diversi dalle chitarre nella musica dura può apparire un azzardo istintivamente parlando, eppure può funzionare. In Europa impossibile non citare gli Apocalyptica ed il loro sound imperniato sui violoncelli, in Asia gruppi come i kazaki Aldaspan e Sharapat ed  i mongoli folk rockers Altan Urag usano in toto o in parte versioni elettriche dei loro strumenti tradizionali. I presenti The Hu -parola radice mongola di essere umano – formati nel 2016 ad Ulaan Baatar, propongono uno stile da loro definito hunnu rock, fatto principalmente da morin khuur, tovshuur, throath singing uniti al basso ed alla batteria. L’album di debutto “The Gereg” ne è la summa.

Il titolo del full-lenght deriva dal termine usato per il primo “passaporto” diplomatico rilasciato dall’Impero Mongolo ai tempi di Genghis Khan. Si potrebbe pensare che per i Nostri tale titolo di viaggio prenda forma in brani perlopiù di media durata, colmi di sofisticati arrangiamenti e tecniche canore a volte stratificate. Dal punto di vista strutturale vi è tendenzialmente un approccio dilatato nelle ritmiche, in cui possono emergere in modo più o meno evidente certi risvolti dinamicamente tosti. I pezzi migliori, quelli più grintosi non sono neccessariamente quelli più diretti, bensì più una via di mezzo. Brillano particolarmente tracce come “The Great Chinggis Khaan”, “The Same” e “The song of woman” e “Shireg Shireg”, specie le prime due, che si potrebbero definire i brani più ispirati del disco. “The Great Chinggis Khaan” è uno stupendo compromesso tra un animo immediato ed atmosfere bucoliche, un pezzo umorale che al principio inganna con un fare tranquillo per poi esplodere in aspre sonorità distorte, placarsi di nuovo e rendersi nuovamente violento.

“The Same” d’altro canto si distingue per essere un ottimo crescendo ruvido,cupo e tempestoso, il cui dramma la rende vicina a certi estremismi strumentali dei Voodoo Kungfu. Opposta è la luminosa “Shireg Shireg”, bellissima canzone che unisce in modo diverso suggestioni pastorali e tagliente fragorosità. Il poetico e solare flauto accentua con grazia le atmosfere vaporose – quasi alla “Morgenspaziergang” di Krafterkiana memoria – inizialmente quasi sommesse, per poi esplodere in enfasi a tratti indie/alternative. “The song of woman” ammalia invece per un suggestivo incedere prog rock dall’aria psichedelica anni 60, in taluni casi simile a quella dei Jefferson Airplane ma anche a certe cose dei Pink Floyd. Colpisce poi un certo battito di reminiscenza elettronica. In quanto a quid tecnologico la diretta “Shoog Shoog” condensa sorprendentemente un certo hard rock anni 80′ con vaghe spruzzate spaziali quasi alla Rockets sia nelle parti strumentali che nelle vocals. Degne di nota poi le vibranti linee di basso che accentuano la corposità ed il lato avvincente del pezzo.

I due singoli di grande successo “Yuve Yuve Yu” e “Wolf Totem” pur presentando degli arrangiamenti degni di attenzione, sembrano leggermente sottotono in certi frangenti, melodicamente parlando. Entrambi sono dei pezzi assolutamente godibili  e d’impatto – con un netto merito all’ epico e coinvolgente patriottismo di “Yuve Yuve Yu” – ma dotati una consistenza di fondo non sempre al top, specie la marziale “Wolf Totem”. “The Legend of Mother Swan” e la title-track possiedono perlopiù una rocciosità sotterranea che, seppur gradevole, rende complessivamente il pezzo piuttosto scialbo nel primo caso. “The Gereg” se non altro possiede interessanti sonorità vicine a certa new wave anni 80′, in cui le destrezze di morin khuur portano un po’ alla mente certi assoli di Midge Ure e Billy Currie degli Ultravox .
Con “The Gereg” i The Hu ci propogono un disco essenzialmente buono nella produzione e discreto a livello compositivo. Alcuni brani funzionano in modo molto convincente mentre in altri si percepisce un’attitudine di fondo un po’ incerta. Grazie ai video di “Yuve Yuve Yu” e di “Wolf Totem” hanno catturato l’interesse delle masse ma di fatto non hanno inventato nulla. Musicalmente si potrebbero affiancare negli intenti ai connazionali Altan Uraag, ai vicini di casa dalla Mongolia Interna Hanggai ma anche, più alla lontana, agli Ego Fall, Tengger Cavalry e Voodoo Kungfu. Nella band di Ulan Bataar c’è certamente un qualcosa di personale ma sembra che ancora stiano lavorando a creare una vera solidità, una piena maturità compositiva. Si attendono sviluppi futuri.
Elisa “SoulMysteries” Tonini

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