Recensione: The Ghosts of Pripyat
Nel settembre 2014, lo storico chitarrista fondatore dei Marillion Steve Rothery pubblica il suo primo cd solista. Recentemente si è notata inoltre una nuova tendenza: gruppi, gruppetti o artisti di diversa estrazione, si affidano sempre più ai vari metodi di crowd-funding presenti online per sovvenzionare la produzione dei propri album. Steve non era nuovo a questa modalità di raccolta fondi e, anche questa volta (tramite Kickstarter), vi si è dedicato riscuotendo enormi incassi (quasi 60.000 £), quadruplicando la cifra base necessaria allo svolgimento del lavoro. Da sottolineare la partecipazione di un paio di guest star d’eccezione: il “genesisiano” Steve Hackett e l’altro guru della chitarra e fondatore dei Porcupine Tree, Steven Wilson.
La opening track, “Morpheus”, ci avvolge immediatamente con un’atmosfera sognante in pieno stile Pink Floyd dei tempi d’oro. Al corposo tappeto sonoro, fatto di tastiere e giochi di volumi di chitarra, si innesta un tranquillo arpeggio, seguito immediatamente dall’irrompere di suoni che rimandano un poco agli scambi di onde sonore tipici del linguaggio delfiniano. Si attacca il resto della band e la canzone continua il suo percorso floydiano fatto di crescendo e ricadute. Sul finale il brano si “incattivisce” un minimo proprio in concomitanza col caldo e sentito solo di Steve Hackett (alla sua prima apparizione nel cd in questione). Tanta armonia e melodia, la strada sembra quella giusta.
Un ritmo campionato introduce la seconda traccia, “Kendris”, la quale non si discosterà di tanto dall’andamento generale che pare essere stato impostato dal leader della band. Un riffone classico di acustica entra in scena a riempire il sound, presto un’elettrica fa capolino a cantare la melodia del brano. Altro solo tutto cuore per il nostro e niente più sino alla fine di questa song che strizza un po’ l’occhio a un moderno country, impreziosito da una costante presenza elettrica.
“The Old Man Of The Sea”, unica canzone in cui appaiono contemporaneamente i due guest, si apre col consueto arpeggio acustico, al quale si aggiunge ben presto un’altra linea melodica molto “mellow” e calda. I vari assoli di chitarra non si discostano da quanto abbiamo imparato ad aspettarci nei primi due pezzi, fatta eccezione per la fase centrale in cui Steven Wilson prende in mano la sua 6-corde per dimostrare di che pasta è fatto, sempre mantenendo come capo saldo del suo playing una imprescindibile melodia di base. Il finale torna a essere rappresentato dal solito giro d’accordi e tappeto sonoro, solo leggermente inasprito dalle distorsioni e da un colpire più sostenuto del batterista.
Quarta canzone, “White Pass” è composta da una lunga sezione ritmica, fatta di arpeggi acustici semplici, qualche nota sognante di elettrica e un costante ritmo di charleston a sostenere il tutto. Giunti a metà brano, una dissolvenza e un’eterea composizione di synth apre la strada alla sezione elettrica: riff compassato che ci conduce dopo qualche battuta (di troppo), al solito solo in stile Gilmour ma con molto meno tiro. Il finale non aggiunge nient’altro.
“Yesterday’s Hero” segue lo stesso iter (ormai noioso e ripetitivo), delle precedenti creazioni: dopo un arpeggio acustico con conseguente tappeto sonoro in sintonia, si giunge alla parte centrale, ancora dedicata all’assolo melodico, statico e non fluente di idee o soluzioni che non abbiamo già sentito in precedenza. Terminato l’assolo, riprendono giro di chitarra elettrica in pulito e ritmo tranquillo, la coda della canzone è affidata a un’ulteriore solo fotocopia dei primi sentiti nell’album.
Penultimo brano, “Summer’s End”. Qui l’atmosfera è sempre molto tranquilla, l’arpeggio iniziale è sovrastato dalla melodia, sempre dedicata all’elettrica di Rothery. La linea chitarristica, blues-oriented, è ben eseguita anche se sembra non fare mai quel passo in più che ormai bramiamo fin dai primi pezzi. Altri arpeggi conditi da armonici naturali e i consueti giochi di volume costituiscono la costante ritmica del brano e si intermezzano ai break solistici del nostro. Nessuna novità degna di nota fino all’assolo finale, un po’ più movimentato e vario dei precedenti, trovano spazio addirittura anche suoni graffianti e qualche lick in alternate e sweep picking (finalmente un po’ di nerbo), il volume e il tiro generale della canzone ne traggono beneficio, fino alla classica coda perfetta per un messy-finale tipico di ogni live.
L’ultimo pezzo è anche la title track dell’album. Sinceramente, il finale della penultima traccia lascia ben sperare per questa ultima fatica; inoltre, il fatto che sia proprio la traccia che presta il nome all’intero debut album di questo progetto, ci fa sperare in un vero exploit. “The Ghosts Of Pripyat”: la speranza di sentire qualcosa di “nuovo” viene immediatamente disattesa dall’ennesimo arpeggio acustico iniziale che, per quanto sia di pregevole fattura, non apporta niente di più a quanto sentito sino ad ora. Un secondo di break silenzioso e un sound compattato da un basso finalmente protagonista riapre le cadenzate danze di arpeggi, accordi squillanti e qualche tastiera/hammond a riempire il tutto. Una nota positiva è rappresentata dal fatto che l’unicum sonoro sembra aver trovato una più giusta dimensione di tiro e coinvolgimento poi, come d’incanto, un inaspettato e altrettanto insensato break seguito da dissolvenza chiude, d’improvviso, l’album.
In conclusione, ci troviamo di fronte a un album che evidenzia ben poche pretese: la scarsità di idee e soluzioni originali, nonché l’assenza di ogni tipo di virtuosismo fuori schema nelle parti solistiche, sono chiaro sintomo di patente pochezza. Anche le melodie, le quali rappresentato la quasi totalità del lavoro, non s’impongono mai come dovrebbero, lasciando sempre qualcosa di inespresso.
Inoltre, l’inspiegabilmente eccessiva durata delle tracce contribuisce a conferire all’album un alone di noia e monotonia difficile da ignorare. Nonostante tutto, c’è spazio anche per qualcosa di veramente riuscito in questo pressoché anonimo album, sto parlando dell’artwork a cura di Lasse Hoile, il norvegese interpreta al meglio il titolo del lavoro con una foto raffigurante proprio la pluri-citata Prypiat (città fantasma nel nord dell’Ucraina apochi chilometri da Černobyl’) in un grigio davvero evocativo.