Recensione: The Giants Collapse
Tra gli aspetti più intriganti che la vita ci offre troviamo sicuramente la possibilità di vivere degli “ossimori”, concetto preso in prestito dalla letteratura, che indica la presenza, nella stessa locuzione, di parole che esprimono concetti contrari. Ovviamente questo si può allargare anche al vissuto quotidiano in tutte le sue forme, ma nel caso specifico, quello che stiamo analizzando, appare interessante come dalla Grecia, non proprio la patria del Metal per eccellenza (fatto salve alcune eccezioni), arrivi un disco come ‘The Giants Collapse’ degli Artificial Sun. La questione appare interessante come se un chitarrista siberiano pubblicasse un buon album di musica napoletana, anche in questo caso dovremmo parlare di “ossimoro”. Ovviamente la mancanza di tradizione, l’assenza di grandi giri metal, rende le cose più complesse, però oggi, anche nell’era di internet, alcune uscite sono più semplici, fermo restando l’abilità della band di Atene.
L’album del debutto degli Artificial Sun fa emergere chiaramente un elemento intrigante e alquanto invidiabile: la grande coesione e cooperazione tra i membri della band. Quindi probabilmente l’idea di fondo del gruppo è proprio quella di dare un grande senso di unità al fine di offrire un album la cui trama fluisce piacevolmente, rivelando musica inattesa, anche se senza colpi di scena dietro l’angolo.
Questo rappresenta un po’ il limite del pur bello ‘The Giants Collapse’ in quanto, pur essendo un lavoro ricercato, abbraccia fin troppo gli abusati stilemi del metal moderno, a tal punto da essere già un po’ superato. L’ascolto del disco, pienamente calato in quella modernità così moderna e sfruttata da farla apparire ormai stantia, si rivela a un certo punto ripetitivo e molto spesso l’ascoltatore intuisce in anticipo quello che sta accadendo o quello che ascolterà subito dopo. I brani sono sperimentali, con assoli tecnici, percussioni violente, però talvolta appaiono fin troppo ripetitivi, al punto che da un ascolto distratto si ha la sensazione di aver ascoltato un unico brano. Questo è un peccato perché il quartetto greco ha dimostrato, seppur nei limiti descritti, di essere capace di grandi cose, magari rimanendo in un alveo di maggiore competenza, dato che le parti clean appaiono poco ispirate.
Quindi il lavoro, si ripete -ben fatto-, appare un po’ incompiuto, ma probabilmente le criticità emerse saranno in seguito superate, dato che questo è l’album del debutto. Il valore della band si rivela sin dalla bellissima copertina opera dell’artista Marcela Bolivar.
Comunque i brani, che mettono insieme nu-metal, metalcolre, groove e djent, rappresentano un ascolto interessante e sicuramente una spanna superiore rispetto a quanto l’underground, e non solo, ci ha abituati negli ultimi anni.
L’ascolto si fa da subito interessante. Un bel riffing e un cantato carismatico e rabbioso aprono il platter in ‘Hell-o’. La produzione appare secca e ordinata e l’ascolto, come scritto, risulta piacevole, anche perché senza troppi fronzoli. L’onda dell’hardcore è sempre dietro l’angolo, ma qui siamo davanti a un lavoro di cuore, coerenza e passione. Lo start della seguente ‘Scapegoat’ ricorda qualcosa dei nuovi In Flames, per le chitarre in lontananza e la melodia statica e ipnotica; l’introduzione è godibile come tutta la song. Da notare il discreto lavoro canoro, dalle mille sfaccettature e dai timbri più disparati: ora in scream, ora clean (anche se meno convincente) e in alcuni momenti anche un graffiato nel pieno stile delle prime produzioni targate Marilyn Manson. Interessante l’intro di ‘Pathetic Race’, nella sua evoluzione conferma l’eco In Flames di cui sopra, compresi i cori atti a inspessire i chorus. Di sicuro una canzone davvero originale. L’headbanging è davvero onnipresente, anche nelle parti più slow. I musicisti, come scritto in precedenza, godono di un’alchimia da fare invidia ai gruppi più blasonati. ‘White Lies’ forse rappresenta l’episodio più sottotono dell’intero disco, un disco che si presenta comunque di alto livello. Belle idee, arrangiate altrettanto bene e suonate in modo impeccabile. Tutto è al proprio posto, anche nella simil ballad ‘Dead Man’s Misery’ (se così la si può definire). Molti cambi di atmosfere, ma mai troppo forzati. Ancora una volta l’accostamento a Anders Fridén è d’obbligo, ma al timbro di un’ugola non si comanda. Poco male vista la carica emotiva che questa song lascia negli ascoltatori. Gli Artificial Sun confermano di aver lavorato in modo maniacale, curando ogni aspetto (da notare al minuto 4:30 circa l’arrangiamento della parte cantata che è semplicemente perfetto). Altrettanto bella la chiusura, malinconica e molto evocativa con le sue molteplici sovraincisioni.