Recensione: The Goat Of Mendes
Ricordo bene il primo pensiero venutomi in mente dopo aver ascoltato The Goat
Of Mendes per la prima volta, un pensiero focalizzato sull’estremismo sonoro e
concettuale che questo dischetto riusciva a trasmettere e a sbattere in faccia
all’ascoltatore. Ora, dopo molteplici ascolti, posso dire che la freschezza di
quella primitiva intuizione è più viva che mai, e arde sempre più ogni volta che
mi accingo a questo album degli Akercocke.
Sì perchè The Goat Of Mendes è un turbinio di metal estremo in cui non è
lasciato spazio all’immaginazione, un’opera votata interamente al Maligno e alla
sua invocazione. Caproni, ancelle che si concedono a fantomatici sacerdoti dalla
testa caprina, e simboli esoterici, fanno da contorno a un inferno sonoro in
cui, come da tradizione Akercocke, vengono proposte tutte le sfumature proprie
dell’estremismo sonoro, andando a toccare punte di violenza ed emotività
pericolosamente accattivanti. Davanti ad una proposta del genere sembra fuori
luogo andare a elencare ogni cambio di regime, dal death tecnico al brutal, dal
black metal più freddo sino ai lidi caldi e confortanti di melodie evocative,
molto meglio lasciarsi trasportare dallo scorrere dei brani; assaporare e
comprendere la difficile proposta dei nostri, che, seppur commettendo ancora
qualche peccato di presunzione, trascende da una fredda analisi tecnica di tutto
quello che contiene, preferendo il lato più oscuro e impalpabile della
sensibilità musicale di ognuno di noi.
Dopo il debutto non troppo esaltante avuto con Rape of the Bastard Nazarene
(del 1999), gli Akercocke compiono un notevole passo avanti andando a
consolidare i punti di forza del proprio sound: la commistione di tutte le
influenze musicale citate pocanzi lasciate fluire liberamente, secondo uno
schema logico molto ben architettato, andando a delineare con il passare dei
minuti immagini angoscianti con la licenza di abbatterci con tutta la violenza e
l’emotività possibile. Quindi qualcosa di non facilmente realizzabile a mio
avviso, per la quale necessitano notevole ispirazione e padronanza della materia
per poter amalgamare adeguatamente il tutto. E qui vengono le uniche note
dolenti di The Goat Of Mendes, dal momento che gli Akercocke non riescono ancora
a dosare per bene le sfuriate chitarristiche del duo Jason Mendonca e Paul
Scanlan, a volte troppo prolisse o poco incisive. Una mancanza di esperienza che
verrà successivamente colmata fino alla realizzazione del capolavoro
Words That
Go Unspoken, Deeds That Go Undone.
Un lento percorso verso un’eleganza espressiva che ha al giorno d’oggi ben
pochi eguali, che mantiene però intatta la radice più aggressiva e barbarica di
questo album. Un disco che manifesta alcuni punti deboli dettati più dalla
voglia giovanile di “strafare” che dalla reale mancanza di capacità. Un ghigno
malefico vi si stamperà in viso dopo l’ascolto di Of Menstrual Blood And Semen (sovrastrutturata,
un maelstrom sonoro pregevolissimo) e di A Skin For Dancing In, tra le
ottime variazioni vocali del frontman Mendoca si passa da brani dotati di un
fascino morboso (e di testi dissacranti curati dal batterista David Gray) come
Horns Of Baphomet e Infernal Rites (di cui è stato girato
un video la cui visione è sconsigliata ai bambini e ai ben pensanti…eheh…)
ad altri le cui potenzialità sono ancora troppo acerbe per potersi dire
compiute, come Masks Of God, He Is Risen e la lunga Ceremony Of Nine Angles, il
brano più ostico e coraggioso del disco.
Gli Akercocke hanno dimostrato di saper fare molto meglio, ma per
comprenderne appieno l’evoluzione è indispensabile partire dagli inizi, e The Goat Of Mendes è un ottimo biglietto
di sola andata per la vostra perdizione. A mio avviso un
disco che non può mancare nella vostra bacheca.
Stefano Risso
Tracklist:
- Of Menstrual Blood And Semen
- A Skin For Dancing In
- Betwixt Iniquitatis And Prostigiators
- Horns Of Baphomet
- Masks Of God
- The Serpent
- Fortune My Foe
- Infernal Rites
- He Is Risen
- Breaking Silence
- Initiation
- Ceremony Of Nine Angles