Recensione: The God Machine
I Blind Guardian sono uno dei miei gruppi musicali preferiti e da circa una ventina d’anni stazionano stabilmente sul podio delle mie preferenze in ambito metal, tanto che anche nei lavori che mi sono piaciuti meno (“A Twist in the Myth” e “Follow the Blind”, grazie per la domanda) ho comunque trovato episodi per i quali esaltarmi. Per i prossimi minuti cercherò quindi di mettere da parte le mie emozioni ed essere il più obiettivo possibile. In previsione dell’arrivo di “The God Machine”, undicesimo album a nome Blind Guardian e distante ben sette anni dall’ottimo “Beyond the Red Mirror”, ho deciso di tenermi lontano da tutti i singoli e le news uscite in queste settimane, per arrivare verginello all’ascolto dell’album nella sua interezza.
La prima cosa che balza all’orecchio è il ritorno di una certa robustezza nelle canzoni dei tedeschi, che a questo giro si concentrano su chitarre spesse e ritmiche serrate o, se preferite, smorzano la preponderanza delle orchestrazioni dei lavori precedenti. Nelle parole dello stesso Hansi Kürsch, dopo l’opulenza di “Beyond the Red Mirror” e dell’esperimento Twilight Orchestra i nostri non potevano spingere di più dal punto di vista della maestosità, per cui eccoli tornare alle botte. Ovviamente non è un vero e proprio ritorno alle origini, quanto piuttosto un diverso modo di mescolare le carte (cosa che i Blind Guardian hanno fatto spesso in carriera) presentando una maggior quantità di tracce veloci in scaletta rispetto agli immediati predecessori. Che si tratti di una mossa per accontentare le pressanti richieste dei fan o meno starà a voi decidere. Ciò che mi sembra doveroso dire è che il ritorno a canzoni più agguerrite, se nelle utopistiche speranze di certi fan avrebbe automaticamente portato a un ritorno ai dorati anni novanta e a gioiellini come “Another Holy War”, “Welcome to Dying” o “Journey Through the Dark”, deve in realtà prendere atto del passare del tempo e, di conseguenza, della maturazione dei gusti dei bardi, che di rifare un altro “Tales from the Twilight World” non ne hanno, probabilmente, mai avuto voglia. Ecco quindi tracce aggressive e meno pompose, certo, ma sempre filtrate dalla sensibilità e – soprattutto – dalle sonorità sviluppate negli ultimi anni dal gruppo. Per certi versi potremmo considerare “The God Machine” come una sorta di oscuro speculare di “A Twist in the Myth”, album con cui condivide a mio avviso alcune caratteristiche di partenza: il nuovo nato non possiede i picchi del lavoro del 2006, ma compensa il tutto con una maggiore omogeneità qualitativa.
L’album parte bene con “Deliver Us from Evil”, brano che si rifà all’opera Il Crogiuolo di Arthur Miller: i tipici elementi dei bardi qui trovano perfetta coesione, confezionando una traccia tirata e robusta ma dotata anche di buone melodie, con un intermezzo centrale che profuma di vecchi tempi. Durante tutto l’ascolto di “The God Machine”, infatti, compaiono schegge melodiche che rimandano a questo o quel periodo della discografia dei bardi, che se da un lato potrebbero far storcere più di un naso per i continui deja vù, dall’altro innescano il piacevole (almeno per me) giochino del “trova la citazione”. Si prosegue con “Damnation”, introdotta da un arpeggio languido che poi cede il posto ad un brano maestoso e articolato ma non privo di momenti più bellicosi. La canzone sacrifica in parte le melodie immediate che hanno reso celebri i tedeschi in favore di un approccio ad un tempo diretto ed arioso, continuando la tradizione di lavori come “At the Edge of Time”. Si arriva ora a “Secrets of the American Gods”, riguardante l’opera quasi omonima di Neil Gaiman. I ritmi si abbassano per donare al pezzo una sorta di atmosfera solenne e drammatica che, però, non mi convince fino in fondo: forse per le melodie che non spingono come dovrebbero, o forse per un’impressione di svogliatezza che aleggia sul pezzo e ne smorza i buoni spunti. Si torna sull’attenti con “Violent Shadows”, pezzo agguerrito e diretto che, ancora, mescola vecchio e nuovo trasmettendo le giuste emozioni e, nella sua linearità, scorre molto bene traghettando l’ascoltatore alla successiva “Life Beyond the Spheres”. Qui i ritmi partono blandi, serpeggianti, filtrati, acquisendo pian piano spessore e un’incombenza giustamente tesa ma che esplode, infine, in un ritornello un po’ sottotono. La traccia prosegue così, inframmezzando passaggi sornioni e sfacciati ad altri più enfatici, e giocherella con profumi heavy che però convincono solo a metà, perdendo mordente proprio quando la canzone avrebbe dovuto brillare. Decisamente più riuscita è, invece, “Architects of Doom”. Dopo un’intro lenta sempre più incombente, infatti, il pezzo – che liricamente riguarda la serie di fantascienza Battlestar Galactica – parte a spron battuto dispensando un’animosità belligerante che, di colpo, si fa da parte per fare spazio all’ottimo ritornello, maestoso e languido al tempo stesso ma con la giusta punta di minaccia. Finalmente qui tutto torna a funzionare ottimamente: dalle melodie, ai riff, ai cori, rimpallando continuamente tra ritmi e profumi differenti. Si arriva ora alla malinconica “Let it Be No More”, che nell’esprimere il suo doloroso messaggio mescola elegantemente delicatezza, mestizia e grandeur corale. Altro brano, altro cambio: con “Blood of the Elves” – riguardante l’omonimo romanzo di Sapkowski sulle vicende del famoso strigo Geralt di Rivia – si torna a picchiare in modo deciso ed apparentemente caotico, stratificando melodie possenti e riff bellicosi per un altro pezzo da pollice alto. Il sipario su “The God Machine” viene chiuso da “Destiny”, ispirato al racconto della Regina di Ghiaccio di Andersen. Il brano incede in modo scandito e incombente, caricandosi di un senso di oppressione sempre più accentuato e smorzato solo di tanto in tanto dalle rapide screziature delle chitarre. La scelta prende decisamente le distanze dalle precedenti suite finali del Guardiano Cieco ma si rivela a mio giudizio azzeccata, e chiude con un’intrigante nota inquieta un lavoro che di certo farà discutere.
“The God Machine” non è certamente l’album migliore dei bardi di Krefeld e forse nemmeno il migliore della seconda fase della loro carriera, ma è comunque un lavoro che cresce con gli ascolti e garantisce tre quarti d’ora abbondanti di buona musica. Dopo una decina di giorni di ascolti ritengo “The God Machine” un buon album che, però, non sempre raggiunge il suo obiettivo: se da un lato non scende mai al di sotto di una certa soglia qualitativa, dall’altro manca delle classiche tracce killer a cui i Blind Guardian ci avevano abituato.