Recensione: The Goldsteen Lay
“Mollate gli ormeggi, topi di sentina! Si parte!”
Questo, più o meno, il messaggio implicito di “The Goldsteen Lay”, terzo album dei tedeschi The Privateer, dediti a un pirate-metal leggermente diverso (ma neanche tanto) dal solito immaginario ribaldo che ormai imperversa quando si parla di questi predoni del mare: per essere più precisi, i nostri propongono un abile mix tra power e folk, screziato di tanto in tanto da inserti più isterici e neri e impreziosito dai ripetuti inserimenti del violino, immancabile presenza in ogni album di questo tipo, che però qui si ritaglia il suo spazio molto meglio che in tanti altri progetti simili, amalgamandosi col resto del gruppo senza forzature e, soprattutto, mantenendo una certa corposità propria. Fin qui nulla di nuovo, ma a voler guardare bene la proposta dei nostri bei tedesconi si caratterizza per una maggiore serietà e cattiveria (mica tanta, eh, ma qualcosina si nota) musicale, oltre a un gusto per melodie meno spensierate del solito. E a parte questo, direte voi? Beh: non molto, rispondo io.
L’ormai canonico rumore delle onde e il suono dimesso del violino aprono l’album, sorretti dal lavoro di tastiere volto a creare la giusta atmosfera prima della classica, deflagrante opener: “Where Fables are Made” procede senza intoppi e fa esattamente quel che deve fare, alternando riff corposi e secchi alle melodie romantiche garantite dal violino, condendo il tutto con una sezione ritmica agile e cori virili e giustamente trionfali, mentre Pablo fa valere la sua timbrica arcigna. “Draft of the Strange”, dopo un arpeggio molto classico, apre a ritmiche più quadrate che, nonostante le sporadiche accelerazioni, mantengono l’incedere della traccia piuttosto scandito. Il break centrale, molto atmosferico, dona una certa varietà al pezzo, salvo poi tornare a macinare riff accompagnati dai cori mascolini già sentiti prima. “Wide in the Open” sembra concedersi maggiormente al lato power del gruppo, con ritmiche quadrate ma una maggior propensione alla melodia per proporre la propria versione della marcia marinaresca. A controbilanciare il tutto la voce di Pablo, che in alcuni frangenti torna a giocare su confini quasi-black per incattivire il tutto. Con “Arrival” i nostri alternano momenti leggermente più agitati, in cui si pigia un po’ di più sull’acceleratore, ad altri carichi di una solennità malinconica, confezionando un brano abbastanza accattivante, mentre con “As we Saw Some Path” i nostri cercano di alzare l’asticella. L’incedere si mantiene piuttosto simile ad “Arrival”, ma il risultato finale è a mio avviso superiore grazie soprattutto a un ritornello molto azzeccato e un approccio ritmico più propositivo.
La melodia iniziale di “Ocean of Green” ricorda, seppur vagamente, la colonna sonora di una celebre saga cinematografica di soggetto piratesco, salvo poi partire con una rullata insolente ed infarcire tutto con melodie danzerecce. Il violino trova il suo spazio tra un riff e l’altro, ricamando sul tessuto dei tedeschi armonie azzeccate e briose ma non frivole, discostandosi leggermente dal classico effetto humppa anche grazie ad improvvise schegge cariche di pathos. L’inizio incalzante di “Survival of the Quickest” e il suo cantato maligno arrivano a dare la sveglia con una bella iniezione di aggressività, garantita da riff agili e una sezione ritmica in palla, stemperata dai cori più melodici e dalle rapide incursioni di violino, che caricano il brano di toni ora sognanti e ora più epici. Con la successiva “Gunpowder Magic” i nostri puntano tutto su un incedere solenne ed anthemico, screziandolo durante la strofa con sporadici accenni di velata malignità: la traccia si mantiene perlopiù scandita, rallentando sensibilmente nella parte centrale più intima in cui compare la voce femminile, mentre nel finale si assiste al ritorno dei cori e, con essi, dell’enfasi epica. Una melodia malinconica introduce “Derelict”, ballata strumentale di cinque minuti scarsi in cui, tra lo scroscio delle onde, una melodia sognante appena accennata ed arpeggi acustici irrobustiti quanto basta dal resto del gruppo, assistiamo ad una bella prova dei nostri anche in un ambito più disteso, lontani da melodie stucchevoli senza per questo perdere nulla in pathos e trasporto. “The Island, it’s Calling” chiude l’album riassumendo quanto sentito nel corso dei tre quarti d’ora precedenti, amalgamando melodie d’impatto con l’immancabile violino, rallentamenti più raccolti e rapide sfuriate, sfumando infine tutto (e chiudendo idealmente il cerchio) con il ritorno delle onde.
Che dire, dunque, di questo “The Goldsteen Lay”? Niente male, ma forse si poteva fare di più. Si tratta sicuramente di un album abbastanza carico, molto ben suonato, ben prodotto e che scorre meravigliosamente per tutta la sua durata ma di cui alla fine dell’ascolto non rimane molto: ascoltandolo non ho avvertito alcun guizzo, nessuna scintilla capace di farmi drizzare le antenne o che lo elevasse al di sopra della massa di dischi simili. Le buone tracce ci sono, ma secondo me le idee vengono soffocate da sovrastrutture già sentite e risentite che rendono le composizioni abbastanza prevedibili. Pertanto mi sento di suggerire un ascolto preventivo prima di procedere all’acquisto, perché sono abbastanza sicuro che in ambito power/folk ci sia di meglio.