Recensione: The Grand Design

Di Eric Nicodemo - 4 Dicembre 2015 - 8:00
The Grand Design
Band: Khymera
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2015
Nazione:
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80

Se volessimo paragonare i sottogeneri del rock al cibo, la sezione melodica apparirebbe come un buffet a base di dolci ipercalorici. E in fatto di calorie zuccherine, la Frontiers non è seconda a nessuno, facendosi portabandiera di tutti quei complessi nati dalla scena AOR anni Ottanta ed ora attivi per il piacere degli appassionati. Una scena che pullula di complessi ottimi, alcuni carini ed altri con grosse potenzialità.

Tra questi ultimi bazzicano i Khymera, nati inizialmente come sideproject dell’italianissimo Daniele Liverani, di Steve Walsh, storico cantante dei Kansas e dell’ex-Pink Cream 69/Unisonic Dennis Ward. Fuori Liverani e Walsh, le Chimere, con a capo Dennis, sono diventate una realtà autonoma, proseguendo il cammino con uscite dalla buona qualità, che seguono le orme dei capostipiti e inseguono i gruppi emergenti. Ward e soci non potevano, dunque, mancare l’appuntamento con i fedeli votati al melodic rock, pubblicando il loro nuovo disco, “The Grand Design”.

Diversi anni sono trascorsi dal rockeggiante “A New Promise” (2005), e la metamorfosi in AOR band è ormai compiuta, a partire dall’opener carica di entusiasmo: le note di “Never Give Up On You” animano una melodia immediata e accattivante, con le sue tastiere briose e ruffiane. Non manca il frizzante guizzo solista, su tonalità azzeccate. Un prologo superiore in quanto a coinvolgimento e scrittura del ritornello rispetto al precedente “Beautiful Life”, seconda traccia di “The Greatest Wonder” (da notare che la traccia d’introduzione è scomparsa rispetto al passato).

Dunque, sono sufficienti pochi minuti e abbiamo già inquadrato la proposta, collocandola vicino a complessi quali Last Autumn’s Dream, Pride Of Lions e Lionville.

Tell Me Something” fornisce ulteriori chiarimenti sullo stile adottato, che mette in risalto l’ottima performance di Dennis Ward, emulo a metà via tra Bon Jovi e David Glen Eisley dei Giuffria. Guarda caso, l’esplosività del ritornello rimanda proprio alla scuola melodica americana e svedese (Talisman, Alien): non stupirà per originalità, tuttavia la linea del coro cattura l’attenzione e infrange la nostra iniziale freddezza. Facilmente memorizzabile ed immediatamente appagante… cosa vogliamo di più?

 

 Un’eredità che non morirà mai

 

Armonie dal flavour emotivo e diretto rimangono il viatico di tutto il lotto, inclusa la power ballad “Say What You Want”, intessuta sul caldo refrain. L’obiettivo primario è, infatti, quello di fornire un rock melodico da manuale, sia dal punto di vista positivo (ottima verve) che “negativo” del termine (zero novità). Per riassumere il concetto basterebbe “I Believe”, adornata da chitarre scintillanti (mai troppo invadenti) e canti roboanti (mai troppo magniloquenti). Una track accattivante, dove gli arrangiamenti smussano ogni difetto che freni l’immediatezza e l’espressività di voci e strumenti.

Il gusto per arrangiamenti levigati e suoni radiosi, lascito di nomi persi nel tempo (Steel Breeze, Spys, Midnight Sun), risalta a pieno nelle liriche di “A Night To Remember”, complice una manciata di riff straripanti di vitalità.

Si continua con l’attacco deciso di “She’s Got The Love”, interrotto solo dai synts plasticosi, per poi scivolare sull’atteso refrain cantato su tonalità alte e frizzanti che fecero la fortuna degli Journey.

Le atmosfere più struggenti raggiungono l’apice in “Land Of Golden Dreams”, merito dell’impatto emotivo di Dennis e delle voci corali dorate e sognanti. Strano ma vero: pochi minuti e “Land Of Golden Dreams” grazie alla cascata dei vocals raggiunge lo status di canzone tra le migliori del platter…

Sarà un genere inflazionato ma è sempre un piacere ascoltare l’uptempo vecchia maniera della title track, che sfoga l’indole più spumeggiante dell’AOR, donando un grande senso di libertà ed euforia.

“Streetlights” si rivela, invece, la classica ballad cullante dai toni affettati, che non dispiace anche grazie a qualche robusta impennata della sei corde.

Se “Streetlights” continua la lunga tradizione dei lentoni, “Who’s Fooling Who” conferma la proposta, senza ulteriori spunti di interesse rispetto ai precedenti brani.

Il momento di stanca viene superato brillantemente con la decisa “Finally” e i suoi stacchi tastieristici. D’altronde, la canzone si sviluppa come inno al lato più radioso del rock, edulcorato da arie zuccherine, tastiere vivaci e chitarre squillanti.

In chiusura, la ballad di rito ovvero “Where Is The Love”, raddolcita dalla rassicurante presenza di piano e keyboards. Epilogo senza il botto ma tutto sommato decoroso per una setlist già completa e convincente prima del finale.

 

The journey goes on, Khymera

 

Se siete a digiuno di AOR da qualche mese, “The Great Design” saprà rassicurarvi con un lavoro inappuntabile dal punto di vista stilistico.

A vedere il pelo nell’uovo, il punto debole del platter è lo stesso delle precedenti uscite: la mancanza di novità sostanziali e di una personalità più marcata. Se il primo difetto è giustificabile, essendo comune al genere e al rock in generale, potremmo pretendere per il prossimo album un tocco di maggiore indipendenza dai numi tutelari. Mancanza che traspare un po’ dal cantato, pur eccellente ma forse dal timbro e dall’estensione sui generis (aspetto comunque opinabile).

Altre critiche sarebbero superflue per un album come “The Grand Design”, che non si nasconde dietro finte velleità ma compie la propria missione fino alla fine. E quando le canzoni coinvolgono e il minutaggio scorre senza pensieri, tutto il resto passa in secondo piano.

Eric Nicodemo

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