Recensione: The Grand Opus

Di Roberto Gelmi - 29 Ottobre 2014 - 14:00
The Grand Opus
Band: Luke Fortini
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2013
Nazione:
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63

Il mito malmsteeniano continua, ancora dopo trent’anni, a generare stima e desiderio d’emulazione. Tra i tanti musicisti che hanno eletto il chitarrista svedese a Io ideale come non ricordare nomi noti come Timo Tolkki (ex-Stratovarius), Michael Romeo (Symphony X) e Roland Grapow (ex-Helloween, Masterplan)? In tempi più recenti Luke Fortini (questo il suo nome d’arte), talentuoso shredder ferrarese veste i panni di guitar hero dedito al baroque metal più genuino.
Luca inizia a suonare all’età di tredici anni, incantato dalla musica di grandi band come Dream Theater, Iron Maiden, Ozzy Osbourne, Van Halen e, ovviamente, Yngwie Malmsteen.
Dopo studi ed esperienza accumulata, collabora tra il 2002 e 2005 con Paul Di Anno e tiene show in diversi Paesi europei. Milita, altresì, nei Children of the Damned, cover band degli Iron Maiden, negli Hateful e negli Angels Fall. Ha pubblicato nel 2009, per Videoradio Space Travel, l’album strumentale Space Travel.

L’anno scorso ha visto la luce, invece, il suo successore, The Grand Opus, disco di chiara matrice malmsteeniana a cominciare dall’artwork kitsch e (poco) pretenzioso.
Dopo una breve introduzione eterea con protagonista rubati di pianoforte e armonie sognanti (curioso per un album chitarristico), “Wizard of the Magic Temple” attacca con scale e sovrincisioni barocche su ritmi marziali. I bending sono orgastici, la tecnica è indubbia, ma la produzione insufficiente. Sacrosanti i virtuosismi, le modulazioni, ma tutto sa di già sentito e ci sono lungaggini. Si salvano lo stacco all’inizio del quinto minuto e i successivi momenti hard-rockeggianti. Buona anche la coda con inserti semiacustici.
L’album vive, altresì, di intermezzi, ecco così spiegata l’effimera “Voices”, tributo bucolico all’aria “paradisiaca” ben nota agl’italiani teledipendenti di ogni tempo. Di ritorno da un tale Eden (inteso nella sua giusta etimologia), “The Avenue” inizia con un mesto pianoforte (suonato dall’ospite Saverio Verrascina) e tinte fusion; subentra poi la 6-corde prepotente di Fortini a cantare un lamento di libertà. Uno dei brani migliori del lotto.
Con brusco accostamento, “The Golden Legend” riporta i toni su registri malmsteeniani e qui troviamo il primo tributo bachiano dell’album. Niente di più inflazionato, il “Preludio in Do maggiore (BWV 846), che con il suo fare meditativo continua ad affascinare. C’è da dire che Fortini lo reinterpreta con una chitarra semiacustica e ne accelera un po’ troppo i tempi, pregiudicandone l’essenza. Peccato, perché in un convincente abbinamento segue il “Preludio in Do minore” BWV 847, per chi scrive, uno dei migliori dell’intero Klavier Buch. Un brano, altresì, di non facile riproposizione in chiave metal: si tratta, infatti, di un brano spigoloso che richiede a fortiori la secchezza del clavicembalo. Fortini ci mette buona volontà, linee di basso meritorie, un arrangiamento non negativo in toto, ma il risultato è un po’ blando per uno dei pezzi più sostenuti del Clavicembalo Ben Temperato di J. S. Bach.
Crazy Fingers” (il titolo allude a “Venomous Fingers”, pezzo di George Bellas?), regala due minuti di acrobazie chitarristiche con svisate sapide. Dopo una coda fantasmagorica è la volta di “Infernal Dimension”, brano derivativo, ma con buone trovate (il distorsore fa da padrone); sul finire del terzo minuto staglia un break di basso e i ritmi si quietano in una coda dimessa.
The Oracle” parte in tapping, poi prosegue in modo prevedibile, tra scale diminuite e un estratto dal “Capriccio n°16 in Sol minore” di Paganini, brano famoso per i suoi legati chilometrici. Difficile definire l’uscita lirica «occorre fortemente sentire per far sentire», cui seguono minuti di chitarra solistica degni dei Cacophony. Il finale è scoppiettante, con la rivisitazione del capolavoro di Modest Petrovič Mussorgskij, già in conclusione del capolavoro targato Walt Disney del 1940, e che rientra nel novero delle composizioni “metal” antesignane. Fortini dà il meglio di sé lungo i cambi di dinamiche del lungo brano, sempre incantevolmente mutevole.

In definitiva un album coerente di baroque metal, con sana ricerca virtuosistica e spunti reinterpretativi (penso al preludio bachiano in do minore). Fa piacere sapere che anche in Italia non mancano i talenti chitarristici; la classe di Luca Fortini è indiscussa, però dal ferrarese ci si può aspettare molto di più in termini di creatività e personale ricerca stilistica.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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