Recensione: The Grand Scheme of Things
Ed ecco un nuovo full-length per i Dormant Ordeal, “The Grand Scheme of Things”. Un traguardo importante, poiché, tradizionalmente, è con il terzo lavoro che si possono misurare le capacità tecnico/artistiche di una band.
Per inquadrare il loro stile ci sarebbero più definizioni ma, per semplicità e per correttezza formale – almeno a parere di chi scrive – , si può avvicinarli a quella di death metal. Certo, le influenze rinvenibili in “The Grand Scheme of Things” sono più di una, a partire dal black metal, tuttavia instradarli verso la famiglia del metallo della morte appare la direzione più corretta. Death evoluto, se si vuol dire anche progressivo, parimenti fissato su un sound tipico di chi vuole raffigurare la propria idea musicale in un certo modo, con una certa immagine.
Immagine adombrata da un umore triste e malinconico, come una giornata di pioggia a novembre. Si tratta di una sensazione potente, questa. Che, per certi versi, è quella che segna più in profondità i solchi del disco.
Il growling possente di Maciej Proficz funge da condottiero in un immaginario mondo grigio, tetro, la cui atmosfera a volte ha il sapore e l’odore del fango. Non si tratta di una prestazione vocale rivoluzionaria, la sua, però è perfetta per legarsi alla musica partorita dai suoi due compagni di avventura. Maciek Nieścioruk macina riff su riff avendo come base la volontà di produrre visioni, sogni, emozioni; grazie, anche, a un sensibile tocco solista che arricchisce un sound monumentale. Le sue linee di basso rombano come un tuono che pare non avere mai fine, supportando il ritmo dettato da Radek Kowal, batterista che pare conoscere solo e soltanto i blast-beats. Sono pochi, non a caso, gli istanti in cui si rallenta sino a rientrare nei BPM subsonici.
Proprio quest’ultimo elemento, e cioè l’iterazione di ritmi da allucinazione, è uno dei caratteri fondamentali della foggia musicale proposta dai Nostri. La quale, fra le altre cose a essi imputate, dovrebbe essere soprattutto dissonante. Il che è un errore marchiano, poiché nell’LP la melodia c’è. Eccome. Basta saperla trovare.
E qui si entra nel merito della canzoni. Otto. Di lunghezza media escluso la closing-track, ‘The Borders of Our Language Are Not the Borders of Our World’, inquadrabile come suite grazie alla sua complessa varietà, a partire dall’incipit ambient per poi proseguire in un crescendo onde arrivare al massimo dell’aggressività sonora, all’acme della trance da hyper-speed. Qui il combo di Kraków dà mostra di un notevole talento compositivo, riuscendo a incastrare in maniera perfetta tutti i pezzi del rompicapo custodito nella mente dei suoi creatori.
Scritto ciò, è da rimarcare che il platter va osservato in due modi: traccia per traccia e nel suo insieme. In entrambi i casi la riuscita è soddisfacente. Ogni episodio, difatti, presenta delle peculiarità che lo differenziano dagli altri. Come accade nell’immane attacco frontale di ‘Let the Light In’, raffigurante uno spaventoso muro di suono dal colore nerastro. Invalicabile, granitico, segnato dai ghirigori della chitarra solista quasi a voler narrare una storia che affonda le sue radici in eoni fa. La storia di un suono devastante, annichilente, terremotante. Death metal spinto al limite delle possibilità umane. Estremo nell’essere estremo. Da menzionare anche nella stupenda ‘Sides of Defence’, giusto per dimostrare che nelle corde nel terzetto le armoniche piacevoli da ascoltare ci sono.
Davvero talentuosi, i Dormant Ordeal, capaci di dare la vita a un’opera che mette a ferro e fuoco i timpani di chi ascolta. Nel farlo, emerge una bravura degna di menzione. “The Grand Scheme of Things”” è chiaramente per palati foderati di acciaio ma, una volta masticato per bene, regala vivide esperienze lisergiche.
Un altro graditissimo regalo da una delle terre più feconde in materia di death metal, insomma: la Polonia.
Daniele “dani66” D’Adamo