Recensione: The Great Adventure
Nuovo mastodontico lavoro e nuova conferma dell’instancabile vena creativa di Neal Morse, o meglio, della Neal Morse Band. Parliamo di band perché, dal 2012, il polistrumentista di Los Angeles ha deciso di dare una svolta alla sua carriera solista formando un vero e proprio gruppo dalla formazione fissa, accompagnato dall’inseparabile Mike Portnoy alla batteria e dall’amico di lunga data Randy George al basso, assieme a Bill Hubauer alle tastiere e al giovane Eric Gillette alla chitarra. Trattandosi di una formazione stabile, e non più di un gruppo spalla, gli altri membri sono ormai coinvolti anche nel processo creativo e lo stesso Neal Morse non si fa problemi a lasciare il ruolo di frontman in più di un’occasione per dare spazio ai suoi colleghi. Gillette, Portnoy e Hubauer hanno i loro brani in cui cimentarsi come cantanti solisti, ma la loro presenza anche nei cori contribuisce a creare un senso di coerenza all’interno dell’album anche dal punto di vista vocale.
Nel 2016 la Neal Morse Band aveva pubblicato The Similitude of a Dream, doppio concept album la cui trama traeva ispirazione dal romanzo Il Pellegrinaggio del Cristiano, di John Bunyan, riprendendo i temi religiosi ai quali Morse, si sa, si è spesso legato. Oggi la band riprende esattamente da dove ci aveva lasciati: The Great Adventure non è altro che il diretto seguito dell’album precedente, rielaborandone tematiche e motivi musicali. Del resto la copertina, quasi identica a quella dell’ultimo lavoro, mette già in chiaro l’intenzione di Neal Morse di pubblicare un seguito, approcciandosi all’album come si farebbe con un romanzo.
Anche questa volta ci troviamo di fronte a un doppio album, con una storia divisa in cinque capitoli e tanti, tantissimi temi ricorrenti, come da tradizione nei concept di progressive, per un totale di circa cento minuti di musica. In apertura troviamo la consueta overture, la voce di Neal Morse fa capolino con toni delicati, accompagnata dal pianoforte e poco più, per poi partire assieme alla band in un lungo strumentale. Il secondo brano, “The Dream isn’t Over” ha ancora il sapore di un’introduzione, ma con “Welcome to the World” arriva già il primo pezzo forte dell’album, grazie a un buon tiro, melodie forti e un ottimo solo di Eric Gillette, di chiara scuola Petrucci. Meno incisiva la successiva “A Momentary Change”, ma sulla cupa “Dark Melody” svetta ancora una volta il lavoro di Gilette. “I Got to Run” ha uno dei migliori ritornelli dell’album, mentre “To the River” rallenta la cadenza e mostra un uso dei cori vicino al gospel. La title track riprende il tema presente in alcune ballate ma con un tono più spigliato e qualche omaggio agli Yes. “Venture in Black” è un pezzo valido anche se meno significativo di altri, mentre “Hey Ho Let’s Go” si fa ascoltare con piacere, anche grazie ai suoi toni ottimisti. In fondo alla tracklist del primo disco si trova “Beyond the Borders”, una ballata che riprende uno dei temi principali del concept.
Il secondo atto si apre con una nuova overture, chiamata semplicemente “Overture 2”, buon strumentale che passa dalle parti orchestrali alle sonorità anni ’70 per arrivare ai riff à la Dream Theater. Anche questa volta dopo l’introduzione si riparte con un pezzo più calmo e sognante come “Long Ago”, seguito dalla breve “The Dream Continues”. Con “Fighting with Destiny” troviamo un pezzo leggermente più aggressivo, dove esplode il tema più oscuro del concept, riproposto questa volta come ritornello. Agli antipodi la successiva “Vanity Fair”, pezzo leggero dalle atmosfere AOR che offre un intermezzo diverso e gradevole all’interno dell’album. “Welcome to the World 2” è all’altezza della prima versione e forse addirittura meglio, mantenendo le ottime melodie già presenti nella controparte del primo disco, ma con più grinta nella sezione ritmica. Altro breve intermezzo con “ The Element of Fear”, che si collega con le atmosfere più aperte di “Child of Wonder”, forse la migliore delle ballate. “The Great Despair” è un altro pezzo che si fa notare: cadenza lenta, ritmica massiccia, melodie incisive, davvero riuscito. A detta del sottoscritto sono questi i brani che fanno bene all’album, dato che la tendenza di Neal Morse a indugiare su melodie da ballate o semi-ballad rischia a volte di diminuire l’impatto di un lavoro come questo. “Freedom Calling” mostra in principio atmosfere più drammatiche, ma la lunga sezione strumentale si fa strada attraverso emozioni diverse fino ad arrivare a un finale più aperto. L’epilogo è affidato ad “A Love That Never Dies”, ballata che ha il compito di chiudere il disco in modo epico, tra cori e imponenti arrangiamenti di tastiera: un po’ stucchevole anche se funzionale all’album.
Ok, siamo arrivati alla fine del viaggio e non è semplice tirare le somme di un lavoro del genere. Partiamo dalle cose più evidenti. La produzione è impeccabile e la band suona in maniera eccelsa: Randy George e Bill Hubauer svolgono un ottimo lavoro (pensiamo solo a quanto siano importanti le tastiere in un disco come questo), Mike Portnoy è sempre un piacere da ascoltare dietro le pelli e riesce ogni volta a dare un tocco personale ai brani, Eric Gillette si conferma un chitarrista eccezionale (come se non bastasse canta anche benissimo), mentre il padrone di casa si destreggia con la solita disinvoltura tra voce, tastiera e chitarra. Il disco è, tutto sommato, quello che ci si aspetta da Neal Morse, dopo una lunga carriera il suo stile si è ormai più che consolidato. Si può dire che, anche senza dare particolari scossoni al proprio sound, Neal Morse continui a fare il suo mestiere e a farlo bene. The Great Adventure è un album ben scritto, non c’è altro modo per dirlo: i brani funzionano sempre, alcuni risultano più incisivi di altri, ma anche i pezzi che possiamo considerare di transizione sono in ogni caso validi e inseriti perfettamente all’interno del disco. Mai un passo falso, mai una caduta di stile, e in un album che contiene ben ventidue tracce non è cosa da poco. Si spinge molto sulla componente sinfonica, sulle melodie più dolci, forse a volte eccedendo un po’, ma Neal Morse è anche questo. Dopo quasi quarant’anni di attività non è scontato riuscire a mantenere certi standard e, d’altra parte, gli ottimi musicisti che compongono questa band contribuiscono senz’altro a mantenere le idee fresche. Una conferma dunque, come si diceva in apertura, sia per il polistrumentista americano che per la formazione del suo progetto più recente. I fan di Neal Morse possono andare a colpo sicuro.