Recensione: The Great Below
Dopo due anni da The Funeral Pyre, il talento di Jakob Björnfot torna a farsi sentire con questa nuova e attesissima uscita, The Great Below.
Partiamo con il dire che si tratta di una one man band, e che tutto, ruota attorno alla saggezza musicale di Björnfot, che vanta un’esperienza pluriennale come turnista; lo stesso, per una sorta di diabolica legge del contrappasso, è supportato da una serie di “special guest” che impreziosiscono la sua regia.
Dopo un inizio col botto, – perché il suo predecessore, The Funeral Pyre, è stato un album notevole –The Great Below è la prova del nove: perché la conferma è sempre più difficile di un brillante esordio.
L’artwork rappresenta la musica di Björnfot, ovvero una suggestiva sintesi tra elementi pagani e anticristiani. Un’oscura figura che impugna un bastone emerge al centro della scena richiamando il forcone di un diavolo, le cui escrescenze rimandano però alle corna della divinità Cernunos. Ed effettivamente il sound di questo album è particolare, perché Björnfot si muove con estrema destrezza tra vari generi musicali – black metal, blackned death metal, heavy metal – con un risultato deciso e compatto, che ha un unico comune denominatore, ovvero il sound che ricorda molto quello dei Necrophobic, band che indubbiamente ha influenzato le sue scelte musicali passate e presenti, e che, in alcuni passaggi, ricorda – udite, udite – i Bathory.
Ascoltare per credere.
Cauldron Of Plagues apre questo album: un brano velocissimo, con scelta delle chitarre azzeccatissime, ruvide ma non troppo – altrimenti ne avrebbe risentito la parte melodica che risulta particolarmente azzeccata. La title track è un ibrido tra l’intro, che ha un animo strettamente heavy tanto per scelte degli effetti quanto per tecnica, e l’ésprit che è proprio dello speed metal. In Silence è il capolavoro dell’album: il brano più lungo del disco, è glaciale, evocativo, potente, malinconico, incisivo. Un brano che conduce l’ascoltatore mano nella mano nella penisola scandinava, con Quorthon nei panni di nero e dannato Virgilio. Già, perché la musa quorthoniana è più di una mera suggestione o forzatura; e non si tratta solamente della similitudine legata al fatto di ascoltare una one man band, ma è qualcosa che si percepisce tra le note e la liaison che l’artista crea con il suo pubblico. I successivi due brani sono fortemente influenzati dai Necrophobic: Damnation Jaws, impreziosita dal lavoro alle sei corde di Mike Wead (ex Mercyful Fate, King Diamond, Memento Mori) e Sulphur Fire, che ruota attorno ad un riff ben strutturato ed orecchiabile, lento e potente, che ha un notevole intermezzo di forte impatto emotivo. L’assolo impreziosisce il brano mostrando, ancora una volta, l’abilità di Björnfot come strumentista. Ensamvarg è l’altro capolavoro che contribuisce ad elevare questo album, adagiandolo su standard molto più alti della media: un possente e virile riff costituisce il corpo, con un sound tipicamente heavy, ma è la ricerca delle liriche del ritornello il vero tocco di Re Mida Björnfot, perché, anche se non parli o conosci lo svedese ti viene voglia di cantare a squarciagola. Intenso l’assolo finale, in diminuendo, tipicamente anni ’80. Your Mighty Has Fallen è scolpita nella roccia, violenta, cattiva: i ritmi sono tendenzialmente più veloci, il suono è più distorto, meno heavy, più trash. Una malinconica linea di piano apre The Fire Within Him Burns: costruita su una solida base di chitarra che rende omaggio al tremolo picking, conducendoci verso sonorità più dure e complesse.
Il genio e il talento non mancano a questo ragazzo, che ci ha presentato un album creativo, grandioso per alcune sue atmosfere evocative e pieno di spunti, che alimenta la discussione attorno ad un genere che ha ancora molto da dire. Le numerose collaborazioni sono, a nostro avviso, il tallone di Achille di questo album che aveva tutti gli ingredienti per poter essere un capolavoro, perché si sa, quando ci sono troppi galli a cantare, non si fa mai giorno. Avere a che fare con diversi artisti, indubbiamente accresce il background musicale di chi compone, ma lo variega estremamente: tuttavia, ribadiamo, stiamo parlando di grandi pezzi, e di un grande lavoro. Gli ultimi due brani sono meravigliosi ma allo stesso tempo lontani da In silence e Ensamvarg – che consideriamo i momenti più alti di The Great Below – ovvero i capolavori assoluti, che mi hanno emozionato e ricordato quanto sia bello questo genere musicale, troppe volte bistrattato, dimenticato, e con quel peccato capitale che fa guardare con somma diffidenza tutto ciò che è contemporaneo. Ed è da questi due capolavori che il talento di Jakob Björnfot deve ripartire, dai suoi momenti più alti.
Un deciso, anche se confuso, passo in avanti.