Recensione: The Great Divide
Il tempo è sempre veritiero: dopo più di tre lustri possiamo dire che gli Ice Age sono ormai una band di culto, proprio perché oggi poco conosciuta. Oggi il gruppo ha cambiato nome in Soul Fractured e ha chiuso con il progressive. Difficile che qualcuno si accorga di loro nel mercato discografico attuale.
Ma torniamo agli anni Novanta, periodo d’oro per il progressive metal; di lì in avanti non c’è stata più vera innovazione (oggi i Between The Buried And Me e gli Haken, giusto per citare un paio di nomi importanti, stanno riuscendo a rivitalizzare il genere, che, a pensarci bene, vanta un ristretto numero di band).
Gli Ice Age in quel periodo d’eccezione pubblicavano per Magna Carta due ottimi album, The great divide (1999) e Liberation (2001). Furono, tuttavia, corrivamente liquidati come mera copia dei famosi connazionali Dream Theater, che proprio nell’ottobre del 1999 pubblicavano l’ennesimo capolavoro, Scenes from a Memory.
The Great Divide uscì alcuni mesi prima, a inizio giugno (stesso mese del secondo capitolo targato Liquid Tension Experiment), con un artwork interessante, anche se la computer graphic non aiuta molto, opera del chitarrista Jimmy Pappas. Un anziano figuro cammina lungo un ponte sorretto da teschi monumentali, sullo sfondo montagne inaccessibili a specchio su un mare per niente amichevole.
Il “grande spartiacque” è quello tra vita e morte? La musica degli Ice Age parla di temi così oscuri? In realtà, come vedremo, titolo e artwork sono stereotipati, il sound degli americani tutt’altro. La band suona un metal potente, merito delle chitarre abrasive di Pappas (anche produttore e addetto al mixer); Josh Pincus (attivo anche nel progetto Leonardo: The Absolute Man, dove interpreta il ruolo di Lorenzo de Medici) è impegnato su un doppio fronte, tastiere e microfono, oltre a essere principale songwriter; DiCesare intesse linee di basso più in risalto rispetto a quelle del collega Myung; Hal Aponte è un mago della batteria e regge il confronto con Portnoy. Insomma, stiamo parlando di un gruppo affiatato con doti tecniche invidiabili e le carte in regola per sfondare.
Accingiamoci all’ascolto di The Great Divide.
L’opener è un pugno nello stomaco, senza mezzi termini: dieci minuti di metal potente nelle ritmiche e progressivo per tempi dispari e continui assoli chitarra-tastiera. Basta considerare i primi secondi, in 5/4: chitarre e basso heavy, cui si contrappongono abbellimenti di tastiera, subito uno stacco e le atmosfere cambiano. Questi ragazzi ci sanno fare. “Sleepwalker” permette all’ascoltatore di rifiatare un attimo, ma il groove resta su ottimi livelli, grazie anche agli unisoni chitarra-basso. “Join” è indimenticabile per il suo intro arioso, con chitarra semiacustica ovattata. Petrucci & Co oggi farebbero carte false per comporre un brano simile.
Ma veniamo alla sontuosa strumentale “Spare Chicken Parts” (lett. “Parti sparse di gallina”), summa d’insania prog. per eccellenza. Inizio con un riffone sotto acido, poi nove minuti al cardiopalmo, con continui fraseggi e trovate geniali. C’è spazio anche per un assolo di batteria da manuale (con un omaggio a 2001 Odissea nello spazio) cui segue un break catartico. In una parola, brano epico. “Because of you” inizia con echi rushiani e va a segno per la carica ottimista e gigiona, che riprende i toni di “Sleepwalker”. Sul finale Pappas regala un assolo da bridivo, che emula la miglior plettrata alternata del collega Petrucci.
Gli Ice Age sanno come variare le atmosfere sonore, quindi è la volta di “The Bottom Line”, uno dei loro pezzi più tirati e heavy, ascoltare per credere. Seconda suite del platter, “Ice Age“, canzone eponima della band, inizia crepuscolare e si mantiene tranquilla fino al quarto minuto, poi esplode; merita un ascolto attento l’ultima parte con tempi sincopati allucinati. Non tra i migliori pezzi in scaletta, ma comunque discreta.
“One look away” è la vera ballad del disco. Di nuovo un mirabile assolo di chitarra, Pincus, invece, non regala eclettismo al microfono e pare l’anello debole della catena: la sua ugola, infatti, pulita e capace di raggiungere registri alti, manca un po’ di mordente e non raggiunge il pathos di LaBrie.
Giunti fin qui dobbiamo fare i conti con la megalomania degli Ice Age, che hanno ancora venti minuti di musica da proporre! L’album supera infatti i settanta minuti.
“Miles to go” ha un bell’intro AOR, ci sono synth curiosi e tanto groove. La seconda strumentale (breve questa volta), “To Say Goodbye Part I – Worthless Words” è una delizia per i progster di ogni età. Tre minuti di tecnica e poesia, follia circense e metal. Ottime le parti di pianoforte, magiche e fatate.
L’ultimo pezzo, “To Say Goodbye Part II – On Our Way” dura altri otto minuti, i ritmi rallentano, c’è il solito assolo pirotecnico e relativa coda strumentale. Un filler, ma ci sta dopo più di un’ora di musica.
Attraversare questo album è una vera impresa, ma vale sicuramente la pena. Dopo alcuni ascolti il full-length cresce e resta impresso nella memoria come album poderoso di metal tecnico e ispirato. Tanta carne al fuoco – opener e title track da dieci minuti, una strumentale da nove – questo il principale difetto, insieme ai molti rimandi ai Dream Theater e una produzione meno ricercata. Ma se questo, il voler strafare, non è l’essenza del progressive metal, allora qual è?
Onore e gloria agli Ice Age, capaci di esordire con un album di tale fattura. Chi ha saputo apprezzare la loro musica oggi li rimpiange come non mai.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)