Recensione: The Great Heathen Army
Puntuali come una razzia nei golfi del nord Europa ecco che, a tre anni da “Berserker”, tornano nei negozi gli Amon Amarth col loro dodicesimo album, “The Great Heathen Army”, in uscita il 5 Agosto per arroventare ulteriormente un’estate già termicamente importante. Stando alle parole di Johan Hegg, “The Great Heathen Army” potrebbe essere uno degli album più pesanti mai fatti dagli Amon Amarth (spoiler: no, ma vi dico subito che poteva andare peggio). Il lavoro si sviluppa nel solito modo: pezzi ritmati e melodicamente appaganti, giustamente cafoni ma ormai definitivamente sdoganati come heavy metal+growl più che death melodico, si trovano affiancati a pezzi più oscuri, drammatici. Niente di nuovo sotto il sole: gli Amon Amarth fanno questo genere da almeno un decennio e, visto il successo di pubblico, fanno anche bene a restare fedeli alla loro ultima evoluzione. Rispetto al precedente “Berserker”, però, i nostri fanno un passo indietro, eliminando certi sconfinamenti forse azzardati (ma di cui, lo ammetto, non mi era dispiaciuto il potenziale) e ammantando l’ascolto di “The Great Heathen Army” di una certa gravitas, che vi permane per buona parte del minutaggio e gli conferisce omogeneità. Ciò contribuisce a dar vita a un album concentrato e compatto, che nonostante le tonnellate di mestiere si lascia ascoltare senza problemi e scorre liscio per tutti i suoi tre quarti d’ora.
Si parte determinati con “Get in the Ring”, che dopo un attacco incombente si sviluppa in modo leggermente più incalzante. Il pezzo è il classico apripista veemente di scuola Amon Amarth, giusto per settare il tono del lavoro e stabilire ancora una volta che da queste coordinate musicali i nostri vichinghi non intendono spostarsi. Si prosegue con la quadratissima title track, riguardante l’invasione vichinga dell’Inghilterra dell’865. Il pezzo si mantiene su tempi lenti e toni bassi, creando un tappeto sonoro incombente e drammatico abilmente screziato dalle rapide melodie che ne smorzano la cupezza. Con la successiva “Heidrun” si cambia registro: la canzone si ricorda per la sua struttura lineare e un fare ritmato e saltellante, ai limiti del folk da cantare in taverna per fare gli sboroni, e trova compimento nel ritornello cafoncello. Si torna concentrati con “Odens Owns You All”, traccia sanguigna e abrasiva in cui si torna a respirare aria di vecchi tempi. La canzone alterna passaggi ferini a brevi squarci melodici che ne diluiscono l’aggressività con rapide note più trionfali. “Find Another Way or Make One” è una canzone determinata che incede con passo pesante per tutta la sua durata, screziandosi di melodie maschie e trionfali per aumentare il suo livello di ritmata cafonaggine. “Dawn of Norsemen” procede più o meno lungo le medesime coordinate, ma si ammanta di un’incombenza più carica di pathos che si acuisce nella seconda parte, introdotta dal brevissimo intermezzo acustico che, a sua volta, apre ad un cupo rallentamento. Con “Saxons and Vikings” la proposta dei nostri viene screziata da venature più classicamente heavy per ospitare IL Sassone del metallo. La voce inconfondibile di Biff Byford, infatti, duella col vocione raschiante di Hegg (e restituendo così il favore per la canzone dei britannici “Predator”) per donare al pezzo un profumo dinamico e renderlo così uno dei punti più immediati di “The Great Heathen Army”, oltre che un piacevolissimo divertissement con più sostanza di quanta se ne immaginerebbe. Con “Skagul Rides with Me” si torna nei ranghi: tempi scanditi e melodie drammatiche la fanno da padrone, con un tono di fondo che, per la sua capacità di farsi a seconda delle necessità incalzante, enfatico o anche disilluso, mi ha ricordato per certi versi “Thousand Years of Oppression”. Il compito di chiudere le danze spetta a “The Serpent’s Trail”, dall’incedere lento e inesorabile, che serpeggia tra umori diversi dominato da melodie al tempo stesso drammatiche e veementi che fungono da supporto a un Hegg più misurato e narrativo, seppur pronto a tornare alla solita ruvidità vocale in occasione del ritornello.
Ritengo “The Great Heathen Army” un buon album, che dietro la ormai solita convenzionalità sonora degli svedesi si rivela il naturale successore di “Berserker”: anche qui si avverte la furbizia del presentare un lavoro in ultima analisi abbastanza ruffiano e pensato principalmente per gli aficionados del nuovo corso del quintetto svedese, ma se non altro il proposito di Hegg e soci viene seguito mantenendo un piglio determinato ed abrasivo. In più, di tanto in tanto riaffiora quella fame che nella musica dei cinque vichinghi latitava da un po’ e di cui, tra l’altro, lamentavo la mancanza proprio in “Berserker”.