Recensione: The Great Silk Road
Negli ultimi anni il metal estremo, il black in particolare, ha avuto un’incredibile diffusione, tanto che oramai si possono elencare band da quasi ogni paese, dall’Europa dell’est all’estremo oriente, dall’America del Sud all’Arabia Saudita; è comunque abbastanza spiazzante ritrovarsi di fronte ad un gruppo proveniente dal Kirghizistan.
Questa povera nazione, situata al confine più occidentale della Cina, non è certo famosa per aver fornito grandi nomi in ambito metal: è doppiamente stupefacente quindi pensare a come da una terra tanto remota dai pensieri di ogni metalhead sia stata partorita una band di tale rarissimo spessore.
I Darkestrah, giunti con questo The Great Silk Road al loro quarto full length in circa 9 anni di attività, ci propongono un genere che può essere genuinamente definito come pagan black metal.
Paganesimo quindi quello al centro delle tematiche del combo kirghizo, molto legato alle tradizioni ed alla mitologia della propria terra natia, sapientemente legato a una proposta musicale variegata, basata su di un black feroce intervallato da stacchi atmosferici con un ottimo uso di strumenti folk tipici.
La grande via della seta, la lunghissima strada che univa l’Europa all’estremo oriente, toccando anche il Kirghizistan, è l’importante elemento storico che da il titolo all’album.
L’apertura è affidata a The Silk Road, pezzo che da’ un’idea di come sarà strutturato l’album in generale: pezzi dal minutaggio elevato (ad esclusione dell’outro il pezzo più breve conta 8,30 minuti) e dalla struttura estremamente varia e mai ripetitiva. Una descrizione accurata di ogni pezzo richiederebbe una recensione per ogni canzone, e con ogni probabilità non riuscirebbe a rendere l’idea della grandezza dell’album: a riff di chitarra epicissimi ed evocativi, tra i migliori che mi sia mai capitato di ascoltare, sorretti dall’ottimo drumming di Absath (tra l’altro anche session man per Nargaroth) e da un uso sontuoso ma mai pacchiano dei synth, si alternano stacchi acustici, lenti ed atmosferici, in cui sono gli strumenti folk tipici a farla da padrone: è facile intuire quanto particolare sia il risultato per orecchie tutt’altro che abituate ai suoni di quell’area geografica.
Un continuo rincorrersi di momenti veloci ad altri più riflessivi, in grado di trasmettere immagini e sensazioni impossibili da descrivere a parole, come in Cult Tengri, probabilmente il pezzo migliore dell’album, con la sua epica cavalcata di chitarra o in Kara-oy, in cui l’uso del synth raggiunge il suo apice qualitativo, con un risultato magico e drammatico che termina con un fantastico assolo di scacciapensieri. Un’ulteriore nota di merito va tributata alla voce della bella cantante Kriegtalith, il cui screaming acido ed abrasivo nulla ha da invidiare a quello di tanti colleghi di sesso maschile.
La produzione svolge ottimamente il suo lavoro, fornendo la giusta dose di potenza e pienezza al suono e facendo sentire alla perfezione ogni strumento anche nei momenti più concitati.
Epico, evocativo, atmosferico e folk, questo The Great Silk Road è un disco pagan nella accezione forse più pura del termine, ennesima conferma che il talento, quello vero, non ha una terra preferita dove attecchire. Un disco di cui ogni secondo, ogni strofa, ogni nota è in grado di regalare emozioni ed immagini nuove ed intensissime ad ogni ascolto: si può davvero chiedere qualcosa di più ad un album?
P.S: il gruppo è ormai da tempo stabilito in Germania, e gli unici membri kirghizi ancora presenti sono la cantate Kriegtalith e il batterista Asbath: gli strumenti folk utilizzati sono comunque originari del Kirhizistan.
Roberto “Strangel” Cavicchi
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TRACKLIST:
1.The Silk Road
2.Inner Voice
3.Cult Tengri
4.Kara-oy
5.Outro