Recensione: The Hell That Follows

Di Daniele D'Adamo - 6 Maggio 2014 - 17:09
The Hell That Follows
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2014
Nazione:
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55

 

Non si può dire che si facciano scoraggiare dalla crisi mondiale e dalla conseguenza povertà d’occasioni lavorative, i greci For A Dozen Matters.

Nati nel 2009 ad Atene, realizzano quest’anno il loro primo lavoro in assoluto, il full-length “The Hell That Follows”. Ovviamente autoprodotto ma anche registrato, missato e masterizzato da Hektor Sohos, chitarrista e principale compositore della band, nonché illustrato dai pennelli di Perverend SlumberSlut, cantante della medesima (pseudo diverso, ma stessa persona). Con l’unica… anomalia di una distribuzione (ma solo distribuzione) professionale da parte della Trailblazer Records, label loro connazionale.

Tanta buona volontà non può che essere lodata giacché il metal, oggi come ieri, ha bisogno come il pane di gente appassionata e, soprattutto, lontana anni luce dalle (il)logiche commerciali, per alimentarsi costantemente con nuova linfa vitale. Tuttavia da sola non basta, la determinazione, e ai Nostri in effetti manca un bel po’ di qualità in senso stretto, per alzarsi al di sopra dei un’insufficienza seppur non grave.

Lo stile, innanzitutto, non è da buttar via, nel suo mix di death classico e groove metal. Un accostamento che in effetti produce dei buoni esiti per quanto riguarda la personalità del quartetto (ora quintetto, con Nash T alla seconda chitarra e Fanis Re(v) in sostituzione di The Hanz), la quale emerge con relativa facilità dalle pieghe dell’album. Il flavour, però, non pare essere quello ‘giusto’ poiché – almeno a parere di chi scrive – sa troppo di stantio. Non si tratta di avere un approccio alla questione più o meno ortodosso. Si tratta di non riuscire a togliere via dagli abiti quell’odore di naftalina che lascia trasparire un background sicuramente esteso ma anche troppo insistente nella sua matrice anni ’80.

I For A Dozen Matters dichiarano la loro dedizione alla ‘new wave of swedish death metal’ ma, a voler essere più obiettivi e distaccati, in certi momenti (“Horny Angel, A Demon Virtue”), sembra quasi di essere di fronte a un banale rigurgito della ‘new wave of british heavy metal’. A ben vedere, proprio per questo discorso… ‘di pelle’, si tratta di una faccenda parecchio legata ai gusti personali di chi ascolta per cui non si può criticare negativamente più di tanto tale scelta stilistica.  
 
Quello che, invece, pare essere un limite concreto e chiaramente definito, insiste nella mancanza di verve nel songwriting, oltremodo piatto e banale. Il genere in sé non porta come conseguenza primaria l’orecchiabilità, tuttavia le song del platter scorrono via in maniera anonima, scolastica, prive di quei punti d’interesse capaci di catturare a lungo l’attenzione. Difetti che, inesorabilmente, come si sa, conducono per mano alla noia. O perlomeno alla voglia di cambiare disco nel lettore. Difficile, di conseguenza, citare qualche canzone che si erga da un grigiore generale abbastanza uniforme e impenetrabile.

Bravi comunque ad averci provato.

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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