Recensione: The Highest Level
A parte i Loudness e pochissimi altri, il Giappone non ha mai sfornato formazioni in grado di emergere dalla mota dell’anonimato per via di una personalità troppo legata a quanto già espresso in materia di metal sia in Europa, sia negli USA.
L’eccezione conferma la regola ed ecco quindi i Defiled che, sin dal 1993, propugnano death metal a destra e a manca con una produzione discografica annoverante ben sette LP, di cui gli ultimi con un’etichetta importante come la Season Of Mist. Sintomi, questi, di un carattere forte e deciso che ha permesso l’elaborazione di uno stile più che adeguato per identificare una band invece che un’altra. Roba spessa, verrebbe da dire.
Non si può parlare di un qualcosa di stravolgente, questo no, tuttavia i Nostri si sono saputi barcamenare con abilità fra i flutti del metal estremo. Un’abilità che li ha resi piuttosto noti anche al di fuori dei confini territoriali del Paese del Sol Levante, allineati alle migliori realizzazioni death internazionali.
Lo dimostra “The Highest Level”, l’ultimo nato. Un disco duro, feroce, compatto, dissonante, orientato con decisione verso le interpretazioni più ortodosse del genere. Un disco che non lascia spazio alle più astruse contaminazioni nonché alle più moderne spinte evoluzionistiche.
Il sound è preciso e tagliente come la lama di un bisturi: perfino nei momenti più convulsi (‘Warmonger’) il livello esecutivo si mantiene sui livelli più alti, il che non deve peraltro stupire giacché i musicisti giapponesi sono tradizionalmente dotati di un’eccellente tecnica strumentale (‘Demonization’).
In particolare, il CD si poggia principalmente sulle arzigogolate scorribande della chitarra di Yusuke Sumit, assimilabile a una fabbrica a elevata produzione di riff. Non solo elevata ma anche complessa, sì che il rifferama appaia come un’inestricabile selva di accordi, totalmente amelodici, tale da rammentare i colleghi che si cimentano con il technical death metal. Solo rammentare, poiché Sumit evita di esagerare mantenendo sempre e comunque un certo rispetto per la forma-canzone tipica del rock. Disarmonia completa anche per quanto riguarda gli assoli, vere stilettate al cuore che rifuggono l’aggettivo orecchiabile come se fosse peste. In ogni caso, che piaccia o meno, si tratta di un chitarrista completo e preparato, capace di portare sulle spalle la maggior parte del sound dell’act asiatico.
Altra chitarra è quella di Shinichiro Hamada, il quale svolge principalmente il compito di cantante. Il suo modo di mettere sotto pressione l’ugola è quello classico. Niente growling, ma un tono rabbioso, aspro, acre, stentoreo. Che, come da definizione enciclopedica, deriva direttamente dalle vocalizzazioni thrash. Assai abile, anche, la sezione ritmica composta da Takachika Nakajima al basso e Keisuke Hamada alla batteria. Il discorso è similare a quello intavolato per Sumit. Pur proponendo continui cambi di tempo lontani anni luce dal quattro quarti, la batteria sonda un esteso intervallo di BPM, che si origina dai mid-tempo sino a sfondare la barriera dei blast-beats (‘Delusion’).
Pure i brani obbediscono al concetto di varietà della composizione. Essi, benché davvero ardui da digerire, persino per gli stomaci più abituati all’estremo del metal… estremo, scorrono via con inaspettata scioltezza, dando l’idea di un lungo serpente che svolge le sue spire in maniera non-lineare per poi mordersi la coda. Malgrado questa diversità, lo stile non subisce alcun mutamento da quello che identifica il quartetto nipponico. Il che non è poco, data la ridda di note che, nel loro aggrovigliarsi, dipingono figure e forme caleidoscopiche che possono indurre a fuorviare dalla via maestra.
Come più su accennato, “The Highest Level” è un’opera che, per via della sua anima cacofonica, è facile che rimanga sullo stomaco dei meno adusi al death metal. I Defiled, però, sono davvero troppo talentuosi per non meritarsi l’opportunità di finire sulla libreria di qualche fan più ardimentoso.
Daniele “dani66” D’Adamo