Recensione: The Holy Empire
Improvvisamente li vidi. Entrambi. Non mi era mai capitato prima d’allora: e dire che li avevo cercati tanto.
Tra le mie mani, finalmente, c’erano i primi due vinili degli Warlord: l’EP Deliver Us (1983) e il live And the Cannons of Destruction Have Begun… (1984). Era un pomeriggio fiorentino di tanti anni fa e quasi non credevo di toccare due dei dischi più belli e introvabili della storia dell’heavy metal. Gli appassionati sanno bene quanto sia difficile recuperare le produzioni targate Warlord. Che sia per scelta consapevole o per inettitudine distributiva, resta il fatto che gli Warlord sono al contempo una delle band più importanti e di minor successo dell’intero panorama heavy metal.
Va detto: i Nostri non brillano per prolificità, se è vero che il disco che ha scolpito in eterno il nome Warlord sulle tavole sacre del metal è un piccolo EP di sei pezzi uscito trent’anni fa, cui seguì un live registrato in un teatro vuoto (!) e, quindi, un lungo silenzio rotto dopo diciotto anni (era il 2002) da Rising Out of the Ashes. Quest’ultimo, a sua volta, non conteneva solo pezzi inediti, ma anche una nuova versione di Lucifer’s Hammer (apparsa originariamente su Deliver Us) e la riproposizione di Winds of Thor, War in Heaven, My Name is Man e Battle of the Living Dead dei Lordian Guard (band del chitarrista Bill Tsamis). Breve nota: su YouTube è recuperabile una bellissima versione demo di My Name is Man dei Lordian Winds, prima band di Tsamis dopo gli Warlord, purtroppo mai approdata ad alcuna produzione discografica.
Uscite centellinate, dunque, lungo i trent’anni che ci dividono da Deliver Us. Eppure gli Warlord occupano di diritto un posto d’onore nell’Olimpo del metallo: Deliver Us, infatti, non è solo un disco (scusate, un EP) di qualità inarrivabile, ma rappresenta un unicum capace di distinguersi nel panorama heavy metal e, al contempo, di influenzare l’intero genere, senza che alcun tentativo di imitazione sia mai riuscito.
I sei pezzi di Deliver Us sono un inno alla creatività fattasi heavy metal e all’heavy metal fattosi arte sconfinata: il loro fascino è rimasto intatto nel tempo e ha contribuito ad avvolgere la band americana di un’aura leggendaria. Per questo motivo, ogni nuova uscita del gruppo fa sussultare i cuori dei fan, ansiosi di affondarsi nuovamente in quell’atmosfera epica che sa di Warlord, solo di Warlord.
Ed eccolo tra le mie mani The Holy Empire, non più un vinile, ma un CD egualmente arduo da trovare. Sembra impossibile, nel mondo globalizzato che tutto offre, incontrare difficoltà ad acquistare un disco di nuova uscita, ma gli Warlord sono un caso a sé: la distribuzione dei loro prodotti resta minima ed è necessario andare sul sito della band per poterne ordinare una copia, che vi verrà spedita dagli Stati Uniti.
Eccolo, dunque: atteso, immaginato, agognato. The Holy Empire contiene otto pezzi composti dal chitarrista William J. Tsamis. Il disco è prodotto da quest’ultimo e dal batterista Mark Zonder (noto per la sua militanza nei Fates Warning). Ingegnere del suono è Phil Magnotti, vincitore di due Grammy Award e meritevole di lode per essere riuscito nel compito di valorizzare le composizioni grazie a suoni volutamente poco prodotti e perfettamente amalgamati.
Alla voce troviamo quel Richard Anderson noto come Damien King III, che avrebbe dovuto cantare i pezzi del progetto mai realizzato My Name is Man risalente al 1986 (sua la voce su quel demo sopra menzionato).
Il disco si apre con 70.000 Sorrows, una cadenzata cavalcata epica che presenta tutte le caratteristiche distintive degli Warlord: straordinarie melodie, arrangiamenti complessi ma mai sopra le righe, cambi di tempo privi di sussulto alcuno e una parte strumentale centrale da applausi.
Segue Glory, che è la Lost and Lonely Days dei tempi moderni: un pezzo leggero e raffinatissimo, quasi malinconico nel suo incedere giocato intorno a strofe che scorrono sotto voce e sfociano in un ritornello che riesce ad essere lontano dall’heavy metal comunemente inteso e, al contempo, risultare completamente epic metal. Ed ecco cosa fa grandi gli Warlord: sono sempre epic metal, qualsiasi cosa decidano di suonare, senza apparente sforzo.
La successiva Thy Kingdom Come è una delle più belle canzoni che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi vent’anni (sì, ho scritto “vent’anni”): epicissima senza scadere nel pacchiano (non è facile), Thy Kingdom Come è un concentrato di genialità in grado di alternare strofe e ritornelli arrangiati diversamente secondo le necessità dinamiche del pezzo, che davvero è in grado di trasportare il fortunato ascoltatore in un mondo parallelo, fatto di armonizzazioni semplicissime e mai banali, di aggressività ed eleganza che si danno la mano in un continuum indistinto e splendidamente progressivo, di aperture melodiche che rendono orgogliosi di essere metallari e fanno il mondo più bello. Arte.
Ed è il turno di City Walls of Troy: violenta, pesantissima, forte di un riff quasi doom dal sapore orientaleggiante e impreziosita dal fantasioso drumming di Zonder, che davvero sa trarre melodia da piatti e tamburi.
Kill Zone è cantata da Giles Lavery, che ha un timbro più acuto e tipicamente metal rispetto ad Anderson. La sua voce si adatta perfettamente al pezzo, un’altra cavalcata, che vede Zonder sugli scudi a disegnare un vero affresco di tamburi che accompagna una melodia tanto semplice e immediata quanto stupefacente: un vero inno al vero metallo, da far ascoltare nelle scuole.
Segue Night of the Fury, impressionante nel suo saper variare lungo un’armonia in 6/8 su cui si staglia una linea melodica elegantissima. Ancora una volta, Zonder si rivela fondamentale con il suo ricchissimo bagaglio di variazioni mai fuori luogo: sembra quasi di sentire il diverso peso dei suoi colpi sulla batteria. La canzone è meravigliosa, al limite dell’onirico pur nella sua inattaccabile epicità così tanto metallica: ascoltate l’assolo di Tsamis e vi verranno in mente i migliori momenti dei primi Iron Maiden, una delle vette compositive del nostro genere.
Father, già apparsa sul secondo disco dei Lordian Guard, sembra una ballad, ma sarebbe riduttivo considerarla tale. Ancora una volta, gli Warlord sanno creare melodie originali valorizzate da arrangiamenti impressionanti, entro cui si nascondono tanti passaggi solo apparentemente semplici. Father emoziona grazie al suo continuo alternare atmosfere diverse fino al meraviglioso finale fatto di una strofa sussurrata, un ritornello pieno e un’armonizzazione conclusiva davvero paradisiaca.
Infine, The Holy Empire: e il recensore s’inchina davanti a quest’opus magnum di undici minuti che scorrono come se fossero quattro e grondano di gloria metallica. Il pezzo che dà nome all’album inizia richiamando quelle melodie medievaleggianti che, trent’anni fa, aprivano Deliver Us, per poi scoppiare in una linea melodica grandiosa sfociante nel ritornello più epico del lotto e, infine, in una chiusura cadenzata dal roboante suono della batteria di Zonder e perfezionata dall’incedere maestoso della melodia cavalcante che accompagna fino alla chiusura del disco.
Lo avrete capito. The Holy Empire è un capolavoro, uno di quei dischi che ascolteremo per anni e a cui faremo riferimento come pietra miliare ogni volta che sentiremo la necessità di un nuovo grande disco heavy metal. Gli Warlord hanno mantenuto le (altissime) aspettative dei fan, regalando loro un gioiello intramontabile che resisterà alla prova del tempo.
Il recensore si commuove pensando a questi tre decenni che sono trascorsi da Deliver Us e il suo volto s’accende di un accennato sorriso ad immaginare quell’adolescente che, scoprendo oggi gli Warlord digitalizzati, alza il suo sguardo da terra e impara a volare sulle ali dell’arte, che fa l’uomo sensibile.
The Holy Empire merita 100. Gli Warlord meritano 100. Noi dobbiamo solo ringraziare d’esser nati metallari.
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