Recensione: The Host

Di Stefano Usardi - 19 Giugno 2024 - 10:00
The Host
Band: Portrait
Etichetta: Metal Blade Records
Genere: Heavy 
Anno: 2024
Nazione:
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74

Sesto album (in uscita dopodomani) per gli svedesi Portrait, che a tre anni da “At One with None” danno alle stampe “The Host”, primo lavoro con Karl Gustafsson alla chitarra nonché primo concept album della carriera. Il suddetto concept, che mescola storia, fantasy e patti demoniaci nella Svezia del 17° secolo, si sviluppa attraverso quattordici tracce per quasi un’ora e un quarto del tipico heavy metal dei nostri, fortemente debitore dell’opera del Re Diamante ma non privo di sfaccettature. Durante l’ascolto di “The Host” si viene infatti a contatto con temi sulfurei e maligni, che insinuano nella trama del quintetto atmosfere mefistofeliche (ben note ai fan del Fato Misericordioso) e fanno il paio con melodie rocciose ed impattanti di scuola maideniana o passaggi dall’afflato solenne. Non mancano però elementi più trasversali, come accelerazioni frenetiche ed abrasive o rallentamenti dimessi, meditativi, che punteggiano la trama sonora per seguire da vicino lo sviluppo della narrazione. Ciò permette ai pezzi di alternare una carica propulsiva sanguigna, ai limiti dello speed metal, a un nervosismo chitarristico cupo, determinato, ammantandosi infine delle melodie penetranti e mai banali a cui i Portrait ci hanno abituato. Purtroppo, in qualche occasione ho avuto la sensazione che i nostri mettessero troppa carne al fuoco, appesantendo “The Host” con qualche riempitivo di troppo o un’eccessiva prolissità in alcuni frangenti. L’esempio più evidente potrebbe essere la conclusiva “The Passions of Sophia”: undici minuti e mezzo in cui i nostri passano dall’enfasi solenne al lamento marziale, ma tirano per le lunghe alcuni segmenti rendendo il pezzo, a mio avviso, un po’ indigesto.

La partenza è di quelle giuste: dopo la superflua intro si comincia a galoppare con “The Blood Covenant”, in cui i Portrait mettono in mostra muscoli e stoffa mescolando riff propositivi, melodie eroiche ed opportune infiorettature più violente. L’ispessimento nella parte centrale incorpora una sezione solista che profuma di vecchia scuola, prima di tornare a sciogliere le briglie per il finale. “The Sacrament” punta su un ritmo quadrato e melodie minacciose e vagamente insinuanti, squarciate dalle improvvise impennate enfatiche. Un ritmo tribale apre “Oneiric Visions”, che in un attimo torna a snocciolare riff di scuola Mercyful Fate: il pezzo si sviluppa su trame spesse e maligne, affiancando un fare serpentino a drappeggi cupi. “One Last Kiss” parte da un arpeggio languido e sinuoso che lascia presagire l’imminente power ballad. Presagio puntualmente confermato, col gruppo che carica la tensione grazie a sporadiche intromissioni più inquiete e dona al pezzo una maggiore corposità nella seconda parte, più movimentata. La frustata di “Treachery” suona la sveglia con ritmi agguerriti e chitarre arcigne che sorreggono un Per in versione Dickinson, salvo poi assestarsi su un ritmo neanche troppo spinto guarnito, però, da gustose quanto taglienti accelerazioni. Anche qui, a metà del pezzo i nostri rallentano per donargli un fare pensoso prima del finale nuovamente nei ranghi. “Sound the Horn”, introdotta dal suono di una spada sfoderata, parte menando fendenti, indulgendo solo durante il ritornello in un fare luciferino nuovamente debitore del Re Diamante. Il pezzo mescola queste due anime, la maligna e la furiosa, screziando il tutto con qualche nota trionfale ben piazzata qua e là. “Dweller of the Threshold” mantiene i giri del motore alti con un fare abrasivo ed irruento, a tratti motörheadiano, mentre il falsetto insinua la giusta malvagità tra sventagliate chitarristiche dal retrogusto maideniano. “Die in My Heart” stempera la furia precedente permeando di una certa enfasi melodie perturbanti e chitarre cafone, non riuscendo però a dare piena personalità ad un pezzo che sembra incerto sulla strada da seguire. “Voice of the Outsider” ammanta arpeggi sinistri di una placida solennità, sviluppandosi come una marcia scandita per poi lanciarsi al trotto senza abbandonare, però, la propria vena trionfale, mentre “From the Urn” rispolvera un malvagio carisma, snocciolando melodie sulfuree e salmodianti su una base rocciosa. L’intermezzo acustico insinua note più compassate nell’amalgama dei nostri, prima di impennare il trionfalismo che sfuma nel finale nuovamente malevolo. Si arriva a “The Men of Renown”, altra sgroppata eroica ma che scivola via senza lasciare granché, giocandosela con ritmi propositivi ed intromissioni dal taglio quasi folk ma risultando abbastanza insipida. Per fortuna arriva la belligerante “Sword of Reason”, canzone arcigna in cui riff tesi si affiancano a una sezione ritmica irrequieta, a rimettere tutti sull’attenti. Le note eroiche tornano a fari sentire durante il ritornello, in cui si rifiata prima di una nuova carica, e nel rallentamento che domina la seconda metà del pezzo e ci conduce al finale nuovamente frenetico. Il compito di chiudere le danze spetta alla già citata “The Passions of Sophia”, introdotta da un bell’arpeggio dai profumi antichi che sostiene un Per sentito e narrativo. La guardia si alza poco prima del terzo minuto, col gruppo che intona una marcia solenne e propositiva e trova il suo climax nel ritornello enfatico. Un nuovo arpeggio più dimesso smorza la tensione, salvo esplodere in una nuova marcia eroica che, inframmezzata a brevi cavalcate, ci accompagna al finale nuovamente solenne ma che lascia, come dicevo, qualche perplessità.

Al termine di ripetuti ascolti non posso che considerare “The Host” un buon album, dotato di svariate luci ma anche di qualche ombra: i Portrait sembrano aver trovato la quadratura del cerchio tra il tributo al proprio nume tutelare (a volte fin troppo smaccato) ed elementi personali e confezionano pezzi che, presi singolarmente, mettono quasi sempre in mostra la stoffa giusta e idee interessanti. La prolissità cui accennavo in apertura e alcuni momenti un po’ dispersivi rischiano di far inciampare l’ascolto di “The Host”, rendendolo indigesto a chi non è avvezzo a certe densità, ma tutto considerato direi che i Portrait sanno il fatto loro.

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