Recensione: The Infernal Pathway
Il 1349, come ormai probabilmente sapete, è l’anno in cui la peste sterminò più del 60% della popolazione norvegese. Dopo cinque anni di silenzio e un rapido passaggio dalla Indie Recordings alla Season Of MIst, la band omonima interrompe il silenzio discografico col nuovo The Infernal Pathway.
Di recente, per festeggiare l’apertura di Lambda, il nuovo Museo dedicato a Edvard Munch che aprirà a Oslo nel giugno 2020, sono stati selezionati quattro artisti norvegesi col compito di rappresentare in musica il loro quadro preferito del pittore dell’Urlo. Matoma, Gundelach, 9 Grader Nord e ovviamente i 1349 si sono prestati volentieri per l’operazione e i nostri hanno offerto Dødskamp, dedicando il brano a Lotta Mortale del 1915. Il brano è diventato presto un 7″ in tiraturta limitata ed è anche stato usato come singolo di apertura di The Infernal Pathway.
“Penso ci sia una somiglianza nella quale sia noi che Munch lavoriamo. Prima guardi la consistenza del dipinto e sembra grezza, quasi primitiva, e non quello che ti aspettavi. Poi fai un passo inditero e magicamente si trasforma in qualcos’altro e praticamente ti urla detro la testa:”
Una volta espletati i doverosi tributi artistici, quello che ci troviamo di fronte è senza dubbio un ottimo album e un graditissimo ritorno. I 1349 suonano un black metal arcigno, senza compromessi, e gli otto brani (più tre intermezzi) qui proposti ribadiscono il concetto senza possibilità di opinare. Come insegnano gli Immortal, il black è un genere che ibridato col thrash rende piuttosto bene; i 1349 sono perfettamente consci di tutto ciò e applicano alla perfezione. Il riffing di Archaon è quindi sempre serrato e alterna il tremolo a massicci power chords rendendo la proposta tecnica, feroce e con ottime aperture melodiche. La voce di Ravn, tranne qualche linea vocale dove si limita a seguire passivamente la chirarra, è sempre sul pezzo e offre tutto sommato una buona prestazione. La sezione ritmica di Seidenmann e Frost pesta invece come un’ossessa, col batterista dei Satyricon particolarmente ispirato, incazzato e più nel suo habitat naturale rispetto all’opaco Deep Calleth Upon Deep. I brani sono quasi tutti basati su partiture velocissime e la prestazione alle pelli è comunque ottima, zeppa di particolari e sempre valore aggiunto nell’economia della band.
The Infernal Pathway ha il difetto, o il pregio a seconda dei gusti, di rimanere sempre lì e di essere un martello continuo; sono pochissime le variazioni concesse al tema e questo, vista la caratura dei musicisti coinvolti, finisce per inficiarne la longevità. Si destruttura un po’ durante l’ultimo brano, Stand Tall In Fire, dove i connotati appaiono più rituali e luciferini; i risultati però rimangono sempre sul discreto senza mai riuscire a dare all’ascoltatore qualcosa di memorabile. Il disco offrirà sempre i suoi 44 minuti di sano macello ma nulla più; di questi tempi e col pullulare di ciarpame che da tempo affligge il genere è comunque un buon risultato.
I 1349 non steccano il settimo album, e ci mancherebbe altro, come di certo non deluderanno i fan di vecchia data né i nuovi adepti. The Infernal Pathway è un album coerente e che fa parte di un certo tipo di attitudine, prodotto bene e col giusto livello di sporcizia. Non c’è nessuna pretesa di interpretare o di reinventare ma, d’altro canto, non c’è nemmeno la voglia di sforzarsi più di tanto per offrire qualcosa di più. Non ci sono filler, momenti morti o brani scritti tanto per fare numero; sono solamente stati inseriti tre intermezzi per tirare fiato e il resto è un massacro. Se è questo che cercate, avete trovato pane per i vostri denti.