Recensione: The Invention Of Knowledge
Le premesse per qualcosa che avrebbe potuto generare “92 minuti di applausi” (cit., da intendersi nel senso originale o in quello opposto), c’erano tutte. Due nonnetti che hanno dato al prog tanto si uniscono e producono un bislacco e probabilmente estemporaneo progetto a due. Da un lato un simpatico sessantenne svedese progmegalomane – al punto da battezare i figli Johann Sebastian e Peter Gabriel. Una vera colonna del genere in patria, un fine chitarrista purtuttavia affetto da reiterato abuso di ridondanza, impastato diverse migliaia di progetti, dai Flower Kings ai Transatlantic e via via a seguire. Roine Stolt ovviamente.
Dall’altro una vera leggenda del genere, una delle voci più inconfondibili (e secondo i detrattori irritanti) di tutto il panorama prog. Il suo nome è indissolubilmente legato agli Yes, ma come dimenticare i 7 album in collaborazione con Vangelis e i 10 a nome proprio? Beh, a dire il vero di Jon Anderson si erano un po’ perse le tracce dal 2001, anno di Magnification. Era riapparso nel 2011, dopodiché un gran profluvio di live e raccolte. Ed ora siamo qui, ad invention of Knowledge.
Un album, uscito ça va sans dire per la Inside Out, diviso in quattro suite, e già questo può levare il sospetto di un polpettone indigesto. Ma niente paura, perché le due composizioni di maggior durata risultano profondamente divise, tant’è che ascoltando l’album in un unicum, l’idea è che vi siano non meno di 8-9 tracce, con sparute riprese di temi e ritornelli.
Ciò detto, l’album vive della classe cristallina dei due artisti, l’uno alla chitarra e l’altro alla voce. Per tutto il disco Anderson e Stolt fanno pieno sfoggio della loro incredibile abilità, dando prova, non ultimo, di intendersi molto bene. Vengono fuori melodie molto delicate profondamente ancorate allo stile di entrambe, e la commistione da buoni risultati. Potete immaginarvi un incontro tra i passi più dilatati di Close to the Edge e Stardust We Are (le suite, non gli album) con alcuni degli arpeggi che hanno arricchito i toni dei Flower da Unfold the future in poi.
Ciò premesso dunque, veniamo alla parte dolente, ovvero la verve. Questo disco, per quanto ben fatto e per quanto dominato da atmosfere sognanti ed avvolgenti, risulta piuttosto piatto. In questo senso, pur non somigliandovi, ha un problema assai prossimo alle prime due suite di Tales of the topographic oceans. Si lascia ascoltare, ma non colpisce, i cambi di ritmo sono onnipresenti, ma non si lasciano notare a dovere.
Ci sono, e ci mancherebbe, diversi passaggi degni di nota, a cominciare dalla prima traccia di apertura – il che non significa che il discorso valga per tutta Knowing. Vi sono buoni ritornelli, ma una bella fetta di disco scivola attraverso i timpani e nemmeno te ne rendi conto, non annoia ma non entusiasma particolarmente.
Al netto delle aspettative dunque, questo disco non conferma né quelle che puntano in alto, né quelle che puntano in basso. Si tratta, un po’ come l’ultimo Yes, di un album che ha tutti gli elementi al posto giusto, non pecca tanto di freddezza quanto di leggerezza. È probabile che (soprattutto) Stolt e Anderson abbiano voluto togliersi uno sfizio a coronamento di oltre 40 di carriera invidiabili su ambo i lati. Chi ama questi due artisti – e chi scrive è tra questi – si troverà a passare qualche bella ora in compagnia di Invention of Knowledge. Di fatto però, senza troppi giri di parole, si tratta di un discreto riempitivo, e come tale va accolto.