Recensione: The Irredeemable
I Cathedral Of Dust, progetto musicale del polistrumentista Matteo Cecchet, in questo lavoro accompagnato da Sofia Bianchi alla voce e al contrabasso, hanno dato alla luce un lavoro, l’EP The Irredeemable, dal quale emerge una forte coerenza e una grande convinzione, in quanto alcune scelte, anche in fase di registrazione, fanno emergere un vigoroso credo poco incline alla valutazione di potenziali terzi. Questo credo, che all’inizio rappresenta un punto di forza dell’EP, a un’analisi attenta però, si ridimensione nel momento in cui Cecchet paragona il suo lavoro a dei giganti della musica, quali Opeth ed Emperor, giusto per citarne qualcuno. Senza paragoni così altisonanti l’album si sarebbe caratterizzato per una spiccata originalità e un’attenta ricerca, aspetti che vengono meno nel momento in cui si ascolta il lavoro avendo in mente le band citate; questo perché, a parte qualche passaggio di Damnation degli Opeth, le influenze non reggono. Il lavoro, del quale The Gargantuan Collapse rappresenta uno dei momenti più interessanti per ispirazione e magnificenza, si avvicina di più alle tendenze, già presenti da qualche anno, diffuse nel metal europeo. Nei quattro brani trovano felice commistione influenze Progressive, Doom e Gothic.
Interessante è l’artwork, che riporta a climi e ambientazioni che si respirano dall’ascolto dei brani; un paesaggio poco definito, offuscato, a tratti nordico e in grado di calare l’ascoltatore direttamente nelle note e nel cantato del disco. L’ambientazione rimanda all’affermazione “preparatevi a un autunno cupo” proposta in fase di presentazione della bio della band.
Matteo Cecchet, polistrumentista, compositore e produttore dell’intero platter, si dimostra audace nelle intenzioni. Qualche sbavatura qua e là, ma a lui il merito di aver messo su questo progetto che comunque trasuda sincerità. D’altra parta la confezione però ha molti (troppi) difetti, così come la forma.
The Gargantuan Collapse ha un intro interessante con un ostinato che promette bene. La voce di Sofia Bianchi punta alle corde di Simone Simons degli Epica, a volte con delle belle idee melodiche (come in questo brano). Nei versi appare forse un po’ sacrificata, per via del drumming troppo articolato, ma aggiunge un pizzico di poeticità al tutto.
Le chitarre ritmiche e soliste però non comunicano a dovere tra loro, colpa di un mix dove la produzione è squilibrata. Le lead guitars sono dunque prive di carisma (complice la mancanza di “abbellimenti” come vibrato e bending espressivi a monte) e risultano davvero sterili, mentre il riffing-work ha più grinta e presenza. Le aperture più epiche rischiano così di diventare una parodia, uno specchio di quello che probabilmente è il punto debole del mini: un epic sound difficile da raggiungere con i soli mezzi a disposizione. Gli spunti alla band sopracitata sono molteplici, pur mancando la vena sinfonica e il wall of sound degli olandesi.
Le chitarre acustiche risultano altissime nel mix e così isolate dal resto da sembrare finte. La batteria fa fatica a integrarsi col resto degli strumenti (vedi in The Meander) e l’oppressiva presenza di innumerevoli parti strumentali non aiuta in quello che può rivelarsi un ascolto curioso e interessato.
L’apertura pianistica di A Fracture in Eternity risulta evocativa, ma viene penalizzata da un susseguirsi frastagliato di arpeggi di chitarra volutamente prog, ma che eclissano un eventuale momento di decollo. Finalmente il chorus è semplice e di facile memorizzazione, caratteristica questa non sempre apprezzata dai più (rappresenterebbe un virtuosismo compositivo). Comunque questa condizione è necessaria per un brano che supera i 6 minuti.
Self-Devouring Spirit è forse il punto più alto, introdotta da un riff mid tempo davvero gotico e nordico allo stesso tempo. Le atmosfere sono interrotte dall’ingresso canoro, seppur preciso, di un tema mai pienamente “dritto” e d’impatto. Colpa di un riffin-work molto confuso e a tratti fuori contesto. Non si riesce in nessun modo a dar spazio alla voce in maniera serena e rilassata (forse una scelta stilistica), ma la sensazione è claustrofobica: gli strumenti vincono sempre su tutto togliendo di diritto la scena ad un’ugola che invece potrebbe impreziosire davvero il lavoro che stiamo ascoltando (magari con dei controcanti).