Recensione: The Jaguar Priest
Mi avvicino al progetto Universal Mind Project in una maniera che sempre più di frequente finisce per influenzare i miei ascolti randomici: la temibile sponsorizzazione su Facebook. Con insistenza sempre maggiore, infatti, gli algoritmi della company di Mark Zuckerberg finiscono per propinarmi le più disparate (e disperate) campagne di crowdfunding. In questo caso, si tratta di una campaign su Indiegogo per rilasciare il video di “Truth”.
Mi informo un po’ meglio e scopro che il progetto, a metà tra power e progressive, coinvolge il batterista Alex Landenburg (Luca Turilli’s Rhapsody), fondatore di UMP assieme a Michael Alexander (chitarra) ed Henrik Båth (voce). Al trio, formatosi nel lontano 2012, si è presto aggiunta la cantante greca Elina Laivera, classe 1992. Numerosi gli ospiti che hanno contribuito al progetto: Nils K Rue (Pagan’s Mind), Mark Jansen (Epica), Charlie Dominici (ex-Dream Theater), Diego Valdez (Helker), Alessandro Bissa (ex-Vision Divine), Mike LePond (Symphony X), Emanuele Casali (DGM) e Johan Reinholz (Andromeda). Inizia sin da subito a farsi largo il timore che un simile dispiegamento di artisti rischi di compromettere il lavoro finale con il temibile “effetto-carrozzone”, ma non demordo, neppure dinanzi alla discreta affluenza di raisers alla campagna: degli 8k€ richiesti, allo scadere del tempo ne sono stati raccolti solo il 42%… con l’opzione di flessibilità, quindi comunque incassati per la realizzazione del videoclip. Con curiosità, impeto e speme scorgo la promo redazionale dell’etichetta Inner Wound Records e mi dedico a numerosi ascolti.
Fughiamo subito ogni dubbio: la figura del sacerdote giaguaro ha origini nella cultura Maya, tanto che è possibile visitare una piramide ad esso dedicata a Tikal, in Guatemala, risalente all’800 A.C. Sembra che la cultura Maya abbia accresciuto notevolmente la sua influenza sul metal, dai tempi della celebre profezia sulla fine del mondo del 21 dicembre 2013, con effetti riscontrabili dai Blind Guardian di “A Voice in the Dark” (2013) all’ultimo concept degli Iron Maiden di “The Book of Souls” (2015), per citarne due a caso.
Il disco parte bene. Il sacerdote sembra in forma. Il dittico “Anthem for Freedom” e la successiva “Truth” volteggiano tra atmosfere synth-tastierose, positive ed amaranthe-iane con le due voci maschile (pulito e growl del mitico Mark Jansen) e femminile, ottimo il comparto tecnico, le ritmiche in tempi dispari ed i solos. La struttura inizia però rapidamente a cedere con “The Bargain of Lost Souls” e la successiva “Dreamstate”, mentre Elina passa da protagonista a gregaria; entrambi tendenti al mid-tempo (coi canonici cambi che ne rendono difficile la definizione univoca), il cui vero peccato mortale è giungere ad un ritornello davvero poco ficcante. Un problema che si ripropone abbastanza di frequente in questo “The Jaguar Priest”; inutile infatti dispiegare un arsenale tecnico di rilievo se poi è la semplice melodia a mancare, soprattutto in un sottogenere che vorrebbe strizzare l’occhio al metal più commerciale.
Nella seconda parte del disco il minutaggio aumenta considerevolmente. Oltre alla soave ballata voce femminile e piano “A World that Burns” e la sincopata “Seven”, si impongono tre pezzi che superano gli otto minuti di durata: “Awakaned by the Light”, “The Jaguar Priest” e “The Force of our Creation”, brani che da un lato evidenziano la straordinaria quantità di idee dei ragazzi, mentre dall’altro iniziano a creare una certa confusione nell’ascoltatore: troppi synth, troppi elementi ricorrenti e poca chiarezza nel songwriting.
Chiusura Maya per “Xibalba”, l’oltretomba per la civiltà mesoamericana, finalmente cinque minuti netti (o quasi) verso lidi più prettamente power, con doppia cassa in abbondanza e le solite mitragliate soliste.
“The Jaguar Priest” è un disco confusamente postmoderno. Qualsiasi cosa sia davvero il postmodernismo nella sua indescrivibile complessità, questo disco ne incarna l’essenza già dall’artwork: un sacerdote-giaguaro in computer grafica, che spazia dal mistico al tribale al futuro di una galassia lontana lontana, legato ad un’iconografia vecchia e nuova, misteriosa quanto terribilmente pacchiana. Lo stesso prova a fare con la musica: tra power melodico, tempi dispari e forti contaminazioni progressive, buttate nel melting-pot assieme a melodie pop, influenze sinfoniche, tantissimi ospiti ed intuizioni dai Maya all’onirico al cosmico gettate al volgo senza una direzione ben precisa. Un vero peccato, perché fondere il progressive con il metal “moderno” a tre voci degli Amaranthe poteva essere un’idea vincente, e con dei musicisti simili le premesse per un ottimo lavoro c’erano tutte. Invece gli Universal Mond Project si sono persi lungo la via, gettando troppi ingredienti nel calderone. Il risultato finale è comunque gradevole, complice anche l’ottima produzione di Simone Mularoni, tanto da far raggiungere al disco la sufficienza. Forse con qualche elemento in meno ed un’identità musicale più precisa, magari maggiormente legata ai quattro membri principali del progetto (pur rischiando di raccogliere meno soldi dal web, eh), questa band potrebbe trovare una qualche via per sublimare la mente universale, in questo esotico e multiforme sacerdozio.
Luca “Montsteen” Montini